La preistoria del calcio a Napoli

                                      
In principio fu il Naples 

   Era l'anno di grazia 1904, il Naples Cricket and Football Club - nato come sezione del Circolo Canottieri Italia - muoveva i primi passi sul Campo di Marte, dalle parti di Capodichino. Sulle cronache cittadine nel racconto delle sue gesta trovavano più spazio i merletti mondani ("Notate la marchesa Cutinelli e la figliola, madame Guidat Durreye con la graziosa figliola, la viscontessa de Melissand... e la più assidua a bordo campo... la duchessa Paduli") che i dettagli tecnici degli incontri fra i rampolli annoiati della nobiltà e della borghesia cittadina, i signorini Scarfoglio (Michele e Paolo, che il fondatore de Il Mattino aveva avuto da donna Matilde Serao), Giolino, Bayon, Treves... In porta, Michele Conforti se la prendeva comoda; portava tra i pali una sedia e, quando l'azione si svolgeva nell'altra metà campo, si accomodava tranquillo e scambiava quattro chiacchiere con chi seguiva l'avvenimento nei pressi.
   La maglia era blu e celeste, il presidente Luigi Salsi, imprenditore edile di origini emiliane. Di questa preistoria incerta e controversa restano racconti di campi polverosi, trasferte avventurose ed una data: il 16 aprile 1910 il Naples in trasferta a Palermo sconfigge la squadra locale per 2-1 e conquista il Lypton Trophy. Per dare enfasi internazionale all'impresa un cronista un po' avventato trasformerà in maltesi i calciatori palermitani. Nella capitale della tazzulella 'e cafè arriva il primo trofeo calcistico messo in palio, ma guarda un po' tu, dal magnate del the.
    Sbarcato all'Immacolatella con i marinai dei bastimenti inglesi alla fine del secolo precedente, andato in scena tra l'indifferenza generale al Mandracchio, divenuto passatempo degli altoborghesi cacciatori di mode, il calcio si trasforma nel volgere di brevi anni in fenomeno popolare. E spesso la cronaca da rosa diventa nera con episodi di scazzottate prima, poi risse ed invasioni di campo. Sulla scena, si fa per dire, cittadina il Naples non era solo; esistevano la Sportiva Napoli, la Juventus, la Robur, la Ginnastica Partenopea; oltre la grotta di Mergellina, la Bagnolese.
    Mentre al Nord il passatempo di moda diventò presto una disciplina sportiva, a Napoli per lunghi anni continuò ad essere un passatempo. Per cui se due o tre giocatori litigavano con il resto della comitiva, non ci pensavano su due volte per fondare un'altra squadra, tutta propria. Nel 1911 alcuni soci si staccarono dal Naples e fondarono l'Internazionale, maglia blu notte, primo presidente Luigi Stolte, che aveva provocato la scissione con Ettore Bayon, Paolo Scarfoglio, lo svizzero Hasso Steinegger, Adolfo Reichlin proprietario delle Cotoniere Meridionali, Augusto Barbati. L'Internazionale fece le cose il grande: arrivarono calciatori stranieri (Ostermann, Little, Kock, Flowes) e costruì un proprio campo di giuoco ad Agnano, recitandolo con un muro. Per la prima volta gli spettatori furono costretti a pagare un biglietto d'ingresso, costo cinquanta centesimi.
   Napoli spendeva gli spiccioli rimasti di un'Arcadia perduta. Impazzavano il cinematografo e le sciantose del varietà, l'onore era reclamato e lavato a suon di duelli, nel porto veniva stipata sui bastimenti un'umanità dolorante. Superficiale, la città prese ad appassionarsi a questo nuovo giuoco. La prima sfida tra Naples ed Internazionale, ai campionati regionali del 1912, fu epica. Furono necessarie cinque partite. All'andata vinse l'Internazionale, il ritorno fu appannaggio del Naples. Fu necessaria una bella. Alla presenza di ben (!) trecento spettatori, arbitro il torinese Armanni. Alla fine era pareggio, quindi supplementari ad oltranza. Dopo due ore e ventuno minuti era ancora 1-1 ed era ormai buio. La domenica successiva nuova partita e nuovo pareggio, 2-2. Al quinto tentativo l'Internazionale battè il Naples. C'erano volute nove ore. Nella foto, in alto il Naples 1911 e al centro il gagliardetto del Napoli 1926
                                         
Attila Sallustro, il primo idolo


  Battagliavano ancora, Naples ed Internazionale, quando scoppiò la guerra; anzi la Grande Guerra. Nelle trincee in riva al Piave resterà per sempre Valle, un ragazzo del Naples. In città scendevano in campo i riformati, contro formazioni dei calciatori-soldati del distretto militare o delle navi alla fonda. Il calcio ormai stava per diventare il passatempo preferito degli italiani, sempre più giocato, visto, chiacchierato. Quasi a volersi prendere una rivincita su paure, distruzioni, lutti, alla fine della guerra fu un'esplosione di squadre: un oriundo sudamericano aprì un bar nella Galleria Umberto e fondò una squadra con il nome del proprio locale, Brasiliano; nacquero la Juventus, la Pro Napoli, la Libertas. Ma i club più popolari erano sempre Naples ed Internazionale, anche se quasi puntualmente battute da formazioni provinciali. I bilanci disastrati, il Naples della Pignasecca e l'Internazionale di via Medina si fusero per diventare Internaples (1922). La proposta - pare, ma gli Erodoto della materia sul dato sono in disaccordo- fu di Giorgio Ascarelli, anche se il primo presidente del nuovo club fu Emilio Reale.
   La divisa di giuoco, maglietta azzurra con risvolti celesti. Continuarono le stagioni di puntuali sconfitte contro Puteolana, Savoia, Bagnolese, Cavese per la squadra che aveva nel suo gagliardetto l'emblema cittadino del cavallo; ed al bar Brasiliano, ritrovo di sconfortati sostenitori, quattro anni più tardi risuonerà con ironia tutta partenopea la battuta che della squadra segnerà la storia ed il destino: chisto è o ciuccio 'e fichella, 99 chiaje e 'a coda fraceta.
    Le delusioni non spengono mai le passioni. Giorgio Ascarelli, assurto alla presidenza, impresse una prima svolta alla filosofia societaria sollecitando l'inserimento del diciassettenne astro nascente Attila Sallustro accanto ai suoi grandi acquisti, l'ex nazionale Carcano, giocatore-allenatore, ed una mezzala destinata ad una luminosa carriera, Giuanin Ferrari; lautamente pagati loro due. Nel 1926 con il primo campionato a carattere nazionale nacque, il primo agosto, l'Associazione Calcio Napoli. Non sarà una stagione esaltante: nemmeno una vittoria, ultimo in classifica e retrocesso, ma salvato d'autorità dalla Figc. Il primo presidente era stato, naturalmente, il vulcanico Giorgio Ascarelli. Ricco industriale, ebreo, prima di morire quattro estati più tardi trovò il tempo per regalare al Napoli (a proprie spese) il suo primo vero stadio ed il suo primo vero allenatore, William Garbutt.
   Vennero gli anni della scapigliatura. Era il 1930. Napoli impazziva per Attila Sallustro e per Lidia Johnson, vedette delle Folies Bergeres. Una domenica Attila andò al Teatro Nuovo e si accomodò in un palco. Il pubblico scattò in piedi e gli tributò un'ovazione, interrompendo lo spettacolo. Al termine, nei camerini, la Johnson presentò al campione la figlia Elena, sedicenne ballerina di fila. Aveva come nome d'arte Lucy D'Albert e misure mozzafiato: 94, 62, 94. Tra il re dello stadio e la prossima regina del palcoscenico nacque qualcosa. Napoli aveva anticipato quasi di un secolo il costume. Nella foto, Sallustro e la moglie Lucy d’Albert


Con Garbutt, Napoli "grande"

   I
l 23 febbraio 1930, sette mesi dopo l'inizio dei lavori, fu inaugurato lo stadio regalato alla città da Giorgio Ascarelli, napoletano del Pendino. Era di scena la temibile Juventus di Combi, Mortarotti, Caligaris, Varglien, Viola, Bigatto, Barale, Zanni, Munerati, Cesarini, Orsi. In maglia azzurra Cavanna, Vincenzi, Innocenti, De Martino, Roggia, Zoccola, Perani, Vojak, Sallustro, Mihalic, Buscaglia. Finì due a due, reti di Munerati ed Orsi, doppietta di Buscaglia. Diciassette giorni più tardi, all'alba del 12 marzo, una peritonite fulminante stroncò Giorgio Ascarelli. La città gli tributò un funerale memorabile, la squadra gli dedicò un pareggio per due a due la domenica successiva sul campo del Milan. Sull'onda dell'emozione venne intitolato a lui il suo stadio; salvo a ribattezzarlo Partenopeo qualche anno più tardi, ampliato e rimodernato: sarebbe stato onorato dalla presenza di Hitler, e se qualcuno, non si sa mai, gli avesse raccontato che lo stadio era intitolato ad un ebreo...
   Ascarelli aveva gettato fondamenta solide, il pilastro principale era mister Garbutt; con lui in cinque anni il Napoli su 200 partite ne vinse quasi la metà, 92, pareggiandone 42. Alla presidenza si accomodò il duca Giovanni Maresca di Serracapriola. E non badò a spese. Dal Torino arrivò Enrico Colombari, mediano di ferro ma dal carattere impossibile. Era costato 250mila lire. Dalla radio una canzone faceva sognare gli italiani. "Se potessi avere mille lire al mese...". I napoletani già fantasticavano sfracelli, ma non avevano perso il senso dell'ironia. La prima volta che Colombari, perso l'equilibrio, finì a terra, dalle tribune si levò il lazzo mordace: è caduto 'o banco 'e Napule!
   Sallustro andò militare, a tenere in piedi la baracca furono i gol del fiumano di ferro Vojak. Lontano dalla zona scudetto, il Napoli -pur tra debiti, rivolte della squadra, episodi boccacceschi in ritiro- riusciva a resistere nella zona alta della classifica e a nutrire sogni di trionfi internazionali. In Coppa Europa potrebbe centrare l'obiettivo; contro gli austriaci dell'Admira arriva alla terza partita ma sul campo neutro di Zurigo crolla clamorosamente per 5 a 0. Accusato di scarso impegno a Sallustro toccarono 2.500 lire di multa e la perdita della fascia di capitano. Offeso per le allusioni alla sua vita privata ('a russa, Lucy D'Albert, considerata la causa dello scadimento di forma) al termine di un furibondo litigio con il presidente dell'epoca, Luigi Savarese, sbatterà la porta e per due mesi non si farà vedere sul campo d'allenamento.
   Ormai il bel giocattolo era irrimediabilmente rotto. Ed entrò in crisi anche l'imperturbabile Garbutt, arrivato a Napoli con la segreta speranza di ripetere all'ombra del Vesuvio le imprese di Genova, dove aveva vinto tre scudetti. Quella stagione si concluse malinconicamente con un settimo posto che concluse l'era-Garbutt. Salì su un treno, direzione Bilbao. Qualcuno disse di averlo visto piangere. Morto da tempo Ascarelli, via lui, era la fine del primo Napoli da rispettare. Nella foto, Cavanna e Vincenzi due pilastri del Napoli di Garbutt
 
Lauro non poteva dire di no al Fascismo

   A
Palazzo Venezia c'era una finestra sempre illuminata, anche di notte, Lui lavorava per le magnifiche sorti e progressive dell'Italietta. Lavorò anche per il calcio, in cinquant'anni diventato un fenomeno nazional-popolare, quindi da controllare, indirizzare, sfruttare come tutto il resto del Belpaese.
   Mussolini fece indossare la camicia nera anche a quel divertimento inventato dalla perfida Albione. E lo fece con due innovazioni fondamentali. I calciatori diventarono proprietà delle società per cui erano tesserati e la cifra pattuita per il loro trasferimento doveva essere depositata, in contanti, in un ufficio federale in maniera da impedire gli indebitamenti per potenziare le squadre. Già allora, ma lo era stato quasi da subito, il calcio produceva soltanto deficit.
    Il Napoli, quanto a debiti, era tra le società prime in classifica. Per cui nella seconda metà del 1935 dovendosi risollevare le sorti di club e squadra venne imposto a facoltosi imprenditori l'ingresso nel consiglio direttivo. Fece il suo ingresso sulla scena di Napoli e del Napoli un sorrentino che da mozzo s'era fatto armatore. Sei mesi più tardi (15 marzo 1936) il federale della città dirà ad Achille Lauro: "Sono chiamato in Africa dal mio dovere d'italiano e di fascista. Ti manderò una mia creatura, prendine cura".
   Tornato a casa, Lauro comunicò a donna Angelina che bisognava attrezzare una stanza per un nuovo ospite. La mattina successiva nel suo ufficio si presentò il vice-federale con i libri contabili ed i debiti del Napoli: 266mila lire. Non era impresa da scoraggiare uno come lui, abituato ad attraversare le tempeste di tutti gli oceani ed a riportare sempre a casa la pellaccia.
   Al fascismo, che gli aveva permesso di ingrandire la flotta ed era il suo miglior cliente, non poteva dire di no. Lo avrebbe fatto alla sua maniera, rimettendoci il meno possibile: 190mila lire furono ricavate dalle cessioni di Ferraris II e di Busoni, 60mila lire dovette rimettercele, invece, di tasca propria.
   La squadra fu rivoluzionata ma riuscì ad evitare per un pelo la retrocessione: finì quart'ultima. Ed allora, via con un'altra rivoluzione; portò in maglia azzurra un triestino che avrebbe lasciato un segno nella storia del calcio non soltanto italiano, Nereo Rocco, il futuro "paron" che negli ultimi anni dell'esistenza nella ventosa casa triestina ricorderà ancora con nostalgia gli anni vissuti al Vomero, il tenace Mian ed il terrificante Pretto.
   Ad ogni fine di campionato le recriminazioni superavano, però, le soddisfazioni; e Lauro, imperterrito, continuava a rivoltare la squadra, il Napoli era come un grand hotel, chi parte e chi arriva. La stagione '39 -'40 fu al vero brivido: salvezza raggiunta all'ultima giornata addirittura per soli sette centesimi di punto nel quoziente reti!
   Il 10 giugno 1940 all'oceanico gregge festante fu partecipato l'ingresso in guerra. Cinque giorni più tardi Lauro lascerà la presidenza all'ing. Gaetano Del Pezzo: doveva badare alla "sua" creatura, la flotta, con incrociatori e sommergibili nemici nel Mediterraneo non si annunciavano giorni sereni. La prima era-Lauro non lascerà tracce gloriose nel palmares societario ma una stupefacente novità nel libri contabili, il bilancio in pareggio. Nella foto, Lauro sul campo si ripara dalla pioggia con un fazzoletto annodato in testa


La difficile rinascita nel dopoguerra

  Furono anni di lutti e distruzioni, Napoli ed il suo porto erano al centro dei raid compiuti dagli aerei inglesi partiti dalla base maltese; più tardi si aggiungeranno quelli americani, e non sarà un miglior affare. Sui muri c'erano gli slogan: credere, obbedire, combattere. I napoletani - nel nostro caso calciatori e tifosi - fecero finta che niente stesse accadendo per non guadagnarsi la scomoda etichetta di disfattisti ed a modo loro credettero, obbedirono e combatterono. Furono sconfitti anch'essi. Nuovo presidente, dopo la minaccia della FIGC di escludere il Napoli dal campionato per morosità, era il federale in persona, il conte Tommaso Leonetti; avrà la dignità (o l'accortezza?) di dimettersi dopo tredici mesi (19 ottobre 1941). L'onta della prima retrocessione in serie B toccherà così all'ennesimo commissario della società, il malcapitato Luigi Piscitelli.
   Si continuava a giocare, ma per imposizione più che per gioco. La notte passata nei ricoveri, il giorno impegnati ad inventarsi come superare le restrizioni delle tessere annonarie i napoletani non potevano certo trarre conforto dai risultati della loro squadra; il decisivo scontro-promozione con il Modena nell'ultima giornata di campionato andò in scena al Vomero, i bombardamenti s'erano accaniti anche sullo stadio Partenopeo rendendolo inagibile. A due minuti dal termine il modenese Eliani in contropiede uccellerà con un pallonetto Chery Sentimenti uscito fuori dai pali. Sconfitta, ed addio ritorno in A.
   L'Italia divisa in due, gli alleati sbarcati in Sicilia il 9 settembre '43, il fascismo caduto, era scomparso anche il campionato unico sostituito da tornei a carattere regionale. A Napoli erano iniziati i rastrellamenti dei tedeschi, la città risponderà con le "Quattro giornate". Sullo sfondo, il bagliore del Vesuvio che partecipa alla sua maniera prima di cadere in profondo letargo. Com'era Napoli, passata 'a nuttata? 232.420 vani distrutti o inabitabili, 22mila civili morti, l'economia annientata, niente gas, niente luce, la fila alle fontanine per l'acqua; per le strade segnorine e sciuscià, ordinarie scene da "pelle" malapartiana. Eduardo De Filippo intanto aveva scritto "Napoli milionaria", sarà rappresentata per la prima volta il 26 marzo 1945 al Teatro di San Carlo; il suo dolente messaggio di speranza era naturalmente valido anche per vicende cittadine del pallone. Al bar Pippone, in via Santa Brigida, s'era infatti ripreso a parlare di calcio già l'anno prima.
   A maggio era nata, per iniziativa del giornalista Arturo Collana, la Società Sportiva Napoli; il 1 giugno la Società Polisportiva Napoli, auspice Gigino Scuotto, uno dei più abili dirigenti mai nati a Napoli, artefice di miracoli di cui non si potrà mai vantare in pubblico. Dopo lunghe trattative i due sodalizi, il 19 gennaio dell'anno successivo, si fusero nell'Associazione Polisportiva Napoli; presidente, per un mese e due giorni, proprio Gigino Scuotto ben lieto di cedere l'incombenza all'ing. Savarese e di occuparsi, quale suo vice, di cose concrete, come il reperimento di un campo per partecipare al campionato regionale. Inagibile l'ex Ascarelli, requisito dagli alleati il Vomero, riuscì a farne allestire uno alla bell'e meglio all'interno dell'Orto Botanico a via Foria. Nella foto, una coda per l'acqua a Napoli,  in Piazza del Plebiscito, durante la guerra

Da Monzeglio alla coppia Jeppson-Vinicio

   Erano i giorni delle am-lire, della polvere di piselli, del "re di Poggioreale" che riportava in Duomo il tesoro di S.Gennaro, del "re di maggio" in partenza per l'esilio a Cascais perché l'Italia aveva scelto la repubblica (Napoli, in controtendenza, si esprimerà per la monarchia), di 417 ragazze imbarcate sulla "nave delle spose" in viaggio verso il matrimonio con altrettanti paisani.
    Dopo una scialba stagione vivacchiata nel campionato regionale (1945), e la partecipazione al campionato misto del Centro-Sud ('45-'46) con una squadra costata 7 milioni, il Napoli di Andreolo, Lustha, Rosi e Barbieri conquisterà la A e una nuova denominazione sociale: il 20 febbraio '47 riecco l'Associazione Calcio Napoli di ascarelliana memoria. In scena comprimari più che prim'attori. Alla prima stagione nel tentativo di salvare l'annata tenteranno di comprare una partita a Bologna. Processo per corruzione e retrocessione per stabilire, l'anno dopo, un altro primato tragicomico: l'affidamento dei pieni poteri a    Domenico Mattioli, il presidente della rivale Salernitana militante nello stesso torneo!
   Egidio Musollino, presidente con Scuotto vice, capì la lezione e decise di assumere l'allenatore della Pro Sesto, un ex campione del mondo: Eraldo Monzeglio. Dai tempi di Garbutt non era arrivato a Napoli un uomo capace di guidare con mano ferma un ambiente così vulcanico; più tardi sospirerà: "qui non avrete mai niente di buono". Fu promozione al primo tentativo e forse sarebbe stato l'inizio di un ciclo vincente se all'alba del 22 febbraio 1951, svegliato dall'incendio del ristorante D'Angelo su cui si affacciava la sua abitazione, Musollino non fosse stato stroncato da un infarto. La successiva diarchia Cuomo-Scuotto portò contrasti e niente quattrini. Si bussò alla porta di Achille Lauro; l'8 agosto accettò la presidenza onoraria, il 29 aprile dell'anno successivo pagherà parte dei debiti e, messa in liquidazione la vecchia A.C.Napoli, darà vita ad un altro sodalizio con la medesima denominazione sociale di cui era il maggior azionista. Come se 11 fossero stati un brutto sogno. Era sopravvissuto alla guerra, al confino, alla distruzione della flotta. Era di nuovo 'o comandante e la sua storia personale sarà, per sua volontà stavolta, intrecciata a quella del Napoli. "Per un grande Napoli ed una grande Napoli vota Lauro" fece scrivere anni dopo sui palazzi della città. E Napoli gli regalò 300mila voti e Palazzo S.Giacomo. In contraccambio ebbe Jeppson, pagato 105 milioni, e Bugatti, e poi Vinicio.
   Nessuno sembrava in grado di contrastarlo, tranne Monzeglio, capace di metterlo alla porta degli spogliatoi dove s'era presentato con un codazzo di cortigiani. Il clima da basso impero, le trame di Amadei, metteranno fine alla prima stagione napoletana del galantuomo don Eraldo. L'interregno di Frossi durerà 4 giornate, poi Amadei in panchina. Invano esporranno uno striscione: vendetevi l'anima, ma non Vinicio. Amadei nel '60 fece vendere Vinicio ed acquistare Pivatelli, Baldi, Gratton; nel corso della stagione gli affiancarono come dt un mito, Renato Cesarini. Fu B. L'anno successivo Pesaola conquisterà la promozione (e la prima Coppa Italia del club), nonostante una storia di corruzione liquidata con la squalifica di personaggi minori. Poi di nuovo una retrocessione ed un altro anno di purgatorio. Fino all'ennesima rivoluzione societaria. Nella foto, Jeppson e Vinicio

Il  colpo di Fiore:  Sivori e Altafini

  Nella stagione precedente era stato stabilito un altro primato: il Napoli s'era fatto beccare con le mani nel sacco al controllo antidoping appena istituito; un cocktail di simpamina e caffeina. Michelangelo Beato, una vita a far massaggi ed ascoltare mugugni, pensò che i giudici l'avrebbero bevuta: tutta colpa del mio caffè, troppo ristretto. L'abilità di Scuotto limitò i danni alla squalifica per un mese inflitta a quattro calciatori. Ma le ragioni del crollo erano altrove; conduzione societaria inadeguata, mezzi finanziari ancor più carenti. Lauro si dimise. Ma non uscì dalla scena, tenacemente abbarbicato al proprio mito. La flotta non era più una miniera d'oro, il boom del trasporto aereo la rendeva superata. In aprile la crisi comunale portò a palazzo San Giacomo un commissario prefettizio, alle amministrative di ottobre i monarchici laurini saranno sorpassati dai democristiani. L'autunno del patriarca volgeva già all'inverno.
    Il vecchio leone continuava a battersi, il Napoli non intendeva mollarlo, ad onta del pauroso deficit finanziario. Ci volevano quattrini freschi, Lauro a suo dire già creditore di 480 milioni non intendeva sborsarli. Si formarono due cordate per rilevare l'A.C. Napoli in liquidazione. Il comandante, con collaudata abilità, mise gli uni contro gli altri, poi scelse la soluzione che gli sembrò più conveniente per i suoi interessi e le sue ambizioni. Il 25 luglio 1964, con atto del notaio Monda, nacque la S.S.C. Napoli SpA; capitale sociale 120 milioni di cui 80 effettivamente versati. Lauro per rinunciare al suo credito ebbe il 40% del pacchetto azionario; il 21% andò a Roberto Fiore, da poco entrato a far parte della vasta schiera dirigenziale, il 30% ad Antonio Corcione che mandato a corrompere il portiere veronese Ciceri s'era fatto carico di tutte le colpe del tentato illecito e della conseguente squalifica.
   Eletto presidente, Fiore richiamò Pesaola e l'ultima giornata di campionato sancì (vittoria sul campo del Parma già retrocesso) il ritorno in serie A. Quel traguardo fu un trampolino dal quale Fiore spiccò il volo: ahilui, troppo in alto, e fece la fine di Icaro. Fiore gongolava quando la sua corte lo definiva "presidente tecnico". In effetti, profondo conoscitore di Napoli, era un abile organizzatore di spettacoli calcistici. I consigli tecnici erano di Pesaola, lui se ne prendeva i meriti. Allestì una campagna acquisti faraonica, puntando su campioni collaudati da mettere al fianco di Antonio Juliano, di Enzo Montefusco, di Faustinho Canè. Andò al Gallia e dal presidente milanista Riva ebbe per 270 milioni Josè Altafini già promesso da Viani alla Juve per 300 milioni. Poi seppe (dal solito Pesaola) che Sivori, in rotta con Heriberto Herrera, doveva essere ceduto al Varese. Sivori valeva 300 milioni, come acquistarlo? Chiese aiuto al comandante. Lauro telefonò ad Agnelli e s'accordarono: la flotta comprava i motori per l'Achille Lauro e l'Angelina Lauro, le sue nuove ammiraglie, Sivori veniva ceduto al Napoli per 90 milioni, pagamento biennale. Altafini arrivò in aereo e la pista di Capodichino fu invasa dai tifosi; Omar scelse il treno. Alla stazione di Mergellina ad accogliere il più estroso degli angeles de la cara tinta erano in diecimila. Nella campagna-abbonamenti Fiore contò 800 milioni. Nella foto, il trio d’attacco del Napoli: Sivori, Altafini e Canè

La breve parentesi di Gioacchino

  Fu un'annata di sbornie colossali. Juve al San Paolo, gol vincente di Altafini ed il "cabezon" ad allacciarsi la scarpetta nei pressi della panchina dell'impassibile Heriberto per sputargli in faccia il suo hjio de puta; pronto a restituire la cortesia al brasiliano, missile vincente nella porta di Barluzzi. Josè ringraziò con l'abbraccio di prammatica ma non aprì bocca. Il trionfo, l'estasi, la popolarità non consigliarono prudenza a don Roberto; ormai si sentiva il mondo in tasca, il terzo posto finale non era un traguardo, vedeva inevitabilmente vicino lo scudetto, il primo scudetto. Allora via con altri acquisti: lo Stiles bresciano Ottavio Bianchi, il bullo delle notti romane Alberto Orlando, nei piani di Pesaola l'ariete da mandare in area avversaria ad aprire varchi per Altafini, che alle caviglie teneva. Record di abbonati, 69.344. Chi impediva più a Fiore di considerare concreti i sogni?
   Ma, nell'ombra, Jago era al lavoro. Qualcuno racconterà a Lauro di stranezze nella regolarità dell'amministrazione societaria, il comandante farà pubbliche allusioni, senza uno straccio di prova. Racconteranno a Lauro anche che 'a chiattona allo stadio aveva urlato "Robertììì, si' bello!". E no, questo no. L'ammirazione alla virilità aveva da essere per lui soltanto. E poi, come s'era permesso di accettare l'incarico federale di commissario per uniformare lo statuto societario a quello predisposto dalla FIGC senza chiedergli il permesso? Lavorato ai fianchi per settimane, con Corcione passato dalla parte del comandante, Fiore fu costretto a dimettersi. Lo farà il 27 dicembre con una lettera pubblica ai tifosi; disconoscendo l'autorità del vecchio timoniere e rivolgendosi direttamente al "popolo" dal quale credeva di aver ricevuto l'investitura. Sognava, don Roberto. Sognava le dimissioni, soltanto preannunciate, di Pesaola, l'ammutinamento della "sua" squadra, la rivolta popolare.
   Giusto per annusare l'aria il comandante non lo sostituì subito; la società fu retta dal legale laurino Diamante, nominato commissario, poi la consegnò al figlio Gioacchino, aduso a gonfiare le spese per rimpinguare l'assegno mensile paterno e di affari come l'acquisto di 20mila galline ovaiole... Con il suo arrivo all'albergo Gallia lievitarono tutti i prezzi, anche quelli delle mignotte. Il campionato s'era chiuso al quarto posto, Gioacchino non badò a spese. Mancato l'ingaggio di Giggirriva, dal Mantova arrivò il giovanissimo Zoff, Altafini, con un consiglio non disinteressato di cui il tempo s'incaricherà di svelare a tutti la ragione, aveva ottenuto l'acquisto di Barison. Champagne per tutti, Porsche in regalo ai calciatori più bravi; a Natale ed ai compleanni, gioielli alle signore. Sarà secondo posto, ma sarà anche l'anticamera del fallimento, con il messo dell'Esattoria comunale arrivato in sede con un precetto di pignoramento per 15 milioni. Ed allora, via Gioacchino. Alla presidenza Antonio Corcione, amministratore delegato Roberto Fiore. Fiutata l'aria, Pesaola cambierà panchina con Chiappella, andando a vincere lo scudetto a Firenze. Sei mesi a regalare buste gonfie di biglietti omaggio; la presidenza Corcione si concluse con il suo funerale. In arrivo l'addio di Sivori, squalificato per sei giornate dopo una maxirissa nel corso di Napoli-Juve ed il ciclone Ferlaino. Nella foto, il presidente Gioacchino Lauro e Bandoni

                                                   
Irrompe il ciclone Ferlaino

  In quel castello dei Borgia ch'era ridiventato il Napoli dimostrò di sentirsi a casa propria l'ultimo venuto. Sempre a caccia di sprovveduti alleati-finanziatori Roberto Fiore aveva ceduto cinque azioni ad uno sconosciuto costruttore edile; fu necessaria una battaglia legale con Lauro, lo statuto non lo consentiva. Il comandante alla fine lasciò perdere. Ma chi era questo Corrado Ferlaino, poteva mai far paura a lui? Mal gliene incolse. A lui ed a Fiore.
    Entrato di soppiatto con quella sua aria indefinibile ed una storia di strane leggende metropolitane alle spalle, Ferlaino alla fine poteva essere definito, nel più benevolo dei casi, uno stravagante. Era sfuggente; da lui non potevi prevedere mai da che parte sarebbe arrivato il colpo mortale. Di soppiatto arrivò anche a casa Corcione, facendo le scale a quattro per non farsi bruciare sul campo dai fratelli Mercadante che s'erano serviti dell'ascensore per trattare con la vedova del presidente l'acquisto del suo pacchetto azionario. Sentì una frase: s'accomodi, ingegnere; era rivolta ai Mercadante, costruttori, ma sprovvisti di laurea. Incuneò un piede nella porta prima che fosse richiusa e proclamò: qui l'unico ingegnere sono io! Vero; la laurea in ingegneria se l'era comprata, ma lui l'aveva sul serio. I compratori chiusi in due stanze, il cognato della vedova Corcione, Tardugno, faceva la spola. Al terzo rilancio, Ferlaino di soppiatto chiuse a chiave la stanza dov'erano i Mercadante. Promise a Tardugno di farlo diventare il suo braccio destro nel Napoli e strappò una firma in calce all'accordo: 70 milioni per il 30% delle azioni, valore nominale 36 milioni.
   Fiore, che l'aveva inviato a chiudere la trattativa per depistare i concorrenti, l'aspettava nel salotto di casa. Al suo arrivo, ed alla notizia che tutto era andato per il meglio, iniziarono i festeggiamenti; Fiore gongolava a sentir quell'appellativo "presidente, presidente". Ferlaino gelò tutti : "Sì, presidente. I soldi li ho cacciati io, il presidente lo faccio io". S'era accordato con Lauro, azionista di riferimento col suo 40%. Il comandante, sicuro di cucinarsi a dovere quel pivellino, lo chiamava figlio mio... Il 18 gennaio 1969 fu eletto presidente, aveva 37 anni e davanti un mare di problemi ed un posto nella storia. Non lo sapeva. Gli avevano fatto credere che i debiti ammontavano a 598 milioni; alla prima ricognizione scoprì che il buco era più vicino ai tre che ai due miliardi. Manco il tempo di ricevere le consegne e dovette sborsare 300 milioni. Lauro, scoperto con quale incoscienza si fosse tuffato nelle curve quel vincitore di Targa Florio, provò ad irretire Fiore. Fu bruciato sul tempo. Pontiere il comune amico Tullio Conte, convinse Fiore a vendergli il suo pacchetto azionario. Don Roberto delegò lo zio a portare avanti la trattativa. Il suo 21% di azioni, valore nominale 25 milioni e 250 mila lire, fu pagato 183 milioni.
   Come il Comandante, Ferlaino ha legato la vita del Napoli alla sua, talvolta utilizzando un'unica cassa. Ha assunto più volte la presidenza, diversi allenatori; comprato molti giocatori, rischiato il tutto per tutto per assicurarsi partite decisive quanto simpatie arbitrali. Chiappella che tentò di far sbocciare una nuova Fiorentina, Vinicio che praticò per primo un calcio-spettacolo e sfiorò pure lo scudetto, Marchesi mai capace di mettere in pratica la sua concretezza, Pesaola inseguito, conquistato, ripudiato; poi Bianchi e Bigon, i vincenti. Accanto a lui i manager migliori: lo scontroso Juliano, il fine Marino, il grande Allodi, il solfureo Moggi. Ha litigato e fatto pace con tutto il calcio che contava, lottato contro il mondo intero, la camorra. Ha resistito agli insulti ed alle bombe. Diabolico, vendicativo, subdolo, bugiardo, antipatico. Alla fine, il miglior presidente nella storia del Napoli. Nella foto, Ferlaino, fresco presidente, in moto

                               
Maradona conquista Napoli

  Le aveva provate tutte. Ferlaino s'era messo contro Lauro per acquistare Clerici, un obiettivo già mancato anni prima; s'era messo contro la Juve e la pistola mostrata infilata nei pantaloni da Luciano Conti venuto inutilmente al bar dell'albergo milanese Principe e Savoia a chiedergli di strappare il contratto privato con cui gli aveva ceduto Savoldi. S'era messo contro i tifosi per aver venduto, in nome del bilancio, Zoff, Sala, Juliano, Bianchi. Sfidò ancora una volta il Sistema e le leggi per prendere Maradona, un affare intuito da Pierpaolo Marino allora all'Avellino e voluto da Juliano con tutta la sua testardaggine. Fu finalmente la sfida vincente. Se altri avevano avuto il merito di portare avanti quella temeraria trattativa, solo lui poteva concretarla.
   Maradona era già meglio 'e Pelè; nonostante la caviglia fracassatagli da Goicoechea, nonostante la vita già maledettamente disordinata. Voleva prenderlo l'Avvocato per la sua Juve; poi la confidenza riservata di un dirigente catalano lo dissuase e puntò per Platini, più vicino alla sua ironia tanto snob. Fu una fortuna per tutti.
   Di Maradona si conosceva tutto, grandezza e miserie; inimitabile in campo, impossibile fuori. Soprattutto si conosceva, dell'affare, la difficoltà nel portare avanti la trattativa con il presuntuoso Barcellona; e la richiesta, milioni di dollari. Alla fine ce ne vorranno sette e mezzo.
   Juliano si tuffò nella mischia come nella partita della vita. Si stabilì a Barcellona con Dino Celentano e Corrado Isaia, a stretto contatto con una variopinta corte di mediatori ed informatori coordinata da Jorge Cysterzpiler, il riccioluto e claudicante ebreo diventato il manager di Dieguito dall'epoca in cui alla "cebollita" nata a Lanus da un papà falegname aveva offerto la prima pizza della sua vita. Ferlaino seguiva tutto da lontano. Una volta andò a Barcellona pronto a firmare il contratto e se ne ripartì subito perché gli avevano cambiato le condizioni. Intanto, con l'appoggio di Enzo Scotti, il sindaco, e grazie all'amicizia di Ferdinando Ventriglia, presidente factotum del Banco di Napoli, si procurò i quattrini necessari. Più volte il consiglio di amministrazione del Banco si riunirà di sera all'hotel Excelsior per approvare i fidi bancari da inviare in Catalogna. Quando arriverà l'ennesimo, ma autentico via libera, era sabato 30 giugno 1984; a mezzanotte scadeva la campagna acquisti.
   Millantando un inesistente placet di Ventriglia, fece inviare dal funzionario di turno le garanzie bancarie richieste. Poi, su un executive, volò a Milano e si precipitò nella sede della Lega dove, alla guardia giurata di turno consegnò una busta, vuota, ed una mazzetta cospicua. Riprese il jet privato ed in tarda serata firmò a Barcellona il contratto definitivo. Ritornò a Milano alle due di notte, il termine ultimo per depositare il contratto abbondantemente scaduto. Tutti sapevano, la trattativa era stata condotta e conclusa in diretta sotto gli occhi di mezzo mondo interessato ed incuriosito; le radio catalane trasmettevano senza sosta interviste ed indiscrezioni, a Napoli una emittente televisiva non staccò mai la linea con il proprio inviato in collegamento telefonico. I giornali, quella notte, andarono in macchina fuori tempo massimo pur di annunciare la lieta novella: habemus Maradonam. Tornato in Lega, Ferlaino sostituì la busta vuota con quella contenente il contratto. Nessuno volle accorgersene. Il 5 luglio al San Paolo, dove erano già in vendita maglie azzurre con il numero 10 ed il nome del titolare. 70mila e passa tifosi in delirio pagheranno mille lire per assistere ai primi palleggi dell'idolo che oscurerà tutti, Dieguito. Nella foto, uno degli "altarini" dedicati a Diego  dai tifosi napoletani

Due scudetti e la Coppa Uefa

  P
er realizzare il sogno occorsero due anni. E la rivisitazione di tutte le strutture. In società arrivarono Pierpaolo Marino ed Italo Allodi. Sulla panchina s'accomodò l'orso Bianchi, l'ex sindacalista di cui l'Ingegnere s'era disfatto. Pur immenso, Maradona da solo non bastava. Ed allora ecco De Napoli, Carnevale, Romano accanto agli scugnizzi allevati in casa, Celestini, Carannante, Caffarelli, Puzone, Muro e quel diamante purissimo cui Marchesi aveva preconizzato la Nazionale Ciro Ferrara. E fu scudetto. Con una giornata d'anticipo il Napoli pareggiando in casa con la Fiorentina (10 maggio 1987) vinse il primo scudetto della sua storia e completò il capolavoro con la terza Coppa Italia. Al club andò anche il trofeo "fair play" destinato al pubblico ed alla squadra più corretti.
   La città si dipinse tutta con i colori del mare, la millenaria vena poetica ebbe libero sfogo. A Poggioreale, nei pressi del cimitero, una malinconica mano anonima scrisse: guagliù, e che ve site perzo... Tempo una notte. La risposta fece il giro del mondo: "e chi ve l'ha ditto!? "
   La stagione successiva, pur rinforzata da Careca, la squadra mancò un bis annunciato e, a tre quarti di campionato, unanimamente giudicato inevitabile. Accadde che s'era rotto il feeling tra Bianchi e la squadra. E che ormai in Maradona la sregolatezza cominciava ad essere pari al genio. In un rapporto della Questura erano contenute le foto di lui in una vasca da bagno dorata in compagnia dei fratelli Giuliano, i camorristi che gli regalavano e lo rifornivano di cocaina. A Castelcapuano, dove il rapporto era giunto, qualcuno lo seppellì in un cassetto; c'era da rivincere lo scudetto. Ed invece lo vinse il Milan. Un'inchiesta non stabilì mai quanto fondata fosse la voce secondo cui quel tricolore lo assegnò la camorra per evitarsi un crac economico, avendo accettato ingenti puntate al totonero sul Napoli campione d'Italia.
   Ferlaino non s'arrese; cercò la rivincita e l'ebbe ma solo in campo internazionale. 17 maggio 1989, a Stoccarda il Napoli conquistò la coppa Uefa; lo scudetto andrà all'Inter. Tornerà, il tricolore, l'anno successivo con il mite Bigon sulla panchina liberata da Bianchi. L'estate era stata movimentata dal tormentone Maradona, scomparso in Argentina, mentre Tapie aveva rivelato di aver raggiunto un accordo con lui per portarlo a Marsiglia. Fu necessario rinegoziare il contratto con Dieguito, in pratica riacquistandolo; altri sette milioni e mezzo di dollari. Ed arrivò il bis, due punti in più sul Milan, grazie anche alle monetina che colpì Alemao nel corso di Atalanta-Napoli trasformando il pareggio in una vittoria ed al harakiri milanista nel finale di stagione.
   La cosa più difficile ormai era diventata la gestione di Maradona, sempre più schiavo della bianca polverina degli dei; l'impresa fu affidata a Luciano Moggi. A furia di compromessi e di bugie, di provette sostituite al controllo antidoping, si andò avanti. Poi il patatrac: beccato positivo; cocaina, ovviamente, la droga che ne deprimeva le prestazioni agonistiche. Un agguato ed una vendetta ordita all'interno del club, ha sempre sostenuto lui. La squalifica gli impedì di portare a termine il campionato. Fu ceduto al Siviglia. Il suo sole cominciava malinconicamente a tramontare. Prese ad impallidire anche la stella di Corrado Ferlaino, s'avvicinava il ciclone Tangentopoli. E per il Napoli un inarrestabile declino. Nella foto, Maradona con la Coppa Uefa


Gli anni bui, dopo Tangentopoli  

   Coinvolto in Tangentopoli per l'appalto dei Regi Lagni, all'alba Ferlaino si costituì in una caserma dei Carabinieri, passò per l'ufficio matricola di Poggioreale, confessò parte dei suoi segreti e delle sue verità ai magistrati, e la sera dormì nei proprio letto, agli arresti domiciliari. Ottenutane la revoca, uscì di scena. La presidenza (1993) passò temporaneamente ad Ellenio Gallo, intervenuto più volte, senza rimetterci troppo, ad assicurare liquidità alle casse sociali. Lo affiancò, toh chi si rivede!, Ottavio Bianchi riciclatosi come direttore generale. A guidare la squadra, Marcello Lippi. All'ultima giornata di una stagione contrassegnata da problemi economici sempre più gravi (i calciatori ad un passo dalla messa in mora del club), fu centrata la qualificazione in Uefa.
   Poteva essere la rinascita. Ed invece per far cassa furono ceduti Ferrara, Crippa, Thern, Zola. Ferlaino per la prima volta era azionista di minoranza, avendo ceduto i pacchetti di controllo a Gallo e a Setten; un altro aspirante dirigente, Vincenzo Pinzarrone, fu arrestato appena preso possesso di una scrivania a Soccavo; i titoli di credito versati in banca per l'acquisto di Cruz e Rincon erano falsi! Squadra affidata a Guerini, poi a Boskov.
   Il 20 giugno 1995, un nuovo presidente: nientedimenoche, Corrado Ferlaino, tornato per evitare il crac (forse anche quello del suo gruppo) grazie al sindaco Bassolino e al presidente federale Matarrese. La squadra non era malvagia, l'allenatore valido: Gigi Simoni, licenziato alla vigilia della finale di Coppitalia, per essersi promesso all'Inter. Ferlaino non accettava di subire le scorrettezze ch'era pronto a commettere.
   Il campionato seguente fu caos totale: 4 allenatori (Mutti, Mazzone, Galeone, Montefusco), per conquistare 14 punti; il ritorno del "nemico" Juliano dopo 13 anni e della B dopo 33. Nell'inferno della cadetteria si rosolerà a dovere il narciso Ulivieri. Ci vorrà la grinta sanguigna di Novellino per tornare in A; mentre il traguardo era vicino, il 5 aprile 2000, Ferlaino cedette a Giorgio Corbelli il 50% del pacchetto azionario. Coprendo con 100 miliardi le esposizioni di Ferlaino verso le banche, il nuovo arrivato acquisì in comproprietà anche un suolo a Giugliano e le quote di maggioranza di palazzo D'Avalos.
   La serie A fu un dramma in un clima di tutti contro tutti. La diarchia a volte funzionava nell'antica Roma; tra i consoli del Napoli furono liti e dispetti. Nessuno si assumerà la paternità dell'ingaggio di Zeman, né la sua sostituzione con Mondonico. Sarà tutta sulle loro coscienze la salvezza mancata per un solo punto.
   Andranno avanti così con l'ennesima rifondazione, affidata a De Canio. A crederci, il solo Corbelli. Ferlaino, non più. L'unico suo obiettivo era ormai un'uscita di scena alla grande, che facesse dire ch'era stato come sempre il più furbo; cioè ben ricompensato. Nella foto, Lippi: centrò l’ammissione del Napoli  in Coppa Uefa

                                    
Da Corbelli a Naldi, poi il baratro

   Ferlaino voleva vendere, Corbelli doveva comprare. La storia s'era ripetuta; con il secondo nella scomoda parte toccata all'Ingegnere all'esordio della sua prima presidenza. Per salvare l'investimento era indispensabile liquidare il socio rivale. Gli occorreva un partner. Lo trovò in un amico del suo braccio destro napoletano. Al termine di una cena al Savoia, l'imprenditore alberghiero Salvatore Naldi disse sì alla proposta indecente: venti miliardi per il 10% del disastrato Calcio Napoli. Fu il più bel regalo di Natale ricevuto da Corbelli e, indirettamente, da Ferlaino. Era dicembre del 2001.
   Due mesi più tardi, il 12 febbraio 2002, presente Salvatore Naldi che garantiva parte del pagamento e portava al 20% la sua partecipazione, fu firmato il contratto che sanciva la definitiva uscita di Ferlaino dal Napoli. Corbelli non ebbe il tempo di gioire. Appena un mese, il 17 marzo, su mandato della Procura di Bari si trovò in carcere per una storia di poco trasparenti vendite all'asta. In galera maturò il convincimento che l'origine dei suoi guai era in quella presidenza. L'istanza di fallimento del Napoli e la nomina di un curatore, il prof. Gustavo Minervini, lo indussero a passar la mano.
   Naldi s'era tuffato in un corso accelerato di presidenza; nelle condizioni peggiori e nonostante l'invito della famiglia e dei consulenti a lasciar perdere, quaranta miliardi erano uno sfizio ancora sopportabile. Invece decise che da quel momento in poi nessuno dovesse più dirgli cosa fare. Disse ai suoi di andare avanti nelle trattative: i soldi c'erano, sapeva lui dove prenderli. Il 30 maggio all'hotel Mediterraneo si festeggiò la conclusione della trattativa con Corbelli; il 21 giugno, a Soccavo, la sua nomina a presidente. Oggi si avvera un sogno, disse, un tifoso diventa presidente del Napoli. Spiegò perché l'aveva fatto: la sua famiglia aveva un debito morale con la città, voleva saldarlo. Chiese aiuto e collaborazione: alle istituzioni, agli imprenditori della città, ai tifosi. Da questi ultimi ottenne simpatia, ma anche le coltellate di aggressioni ai giocatori e di due invasioni di campo (al S. Paolo contro la Salernitana e nell'ultima stagione ad Avellino) che compromisero irrimediabilmente due campionati. Gli imprenditori confermarono con il silenzio di essere poco allenati ad affrontare i rischi. Le istituzioni provarono a stargli vicino senza mai seguire l'esempio dell'amministrazione comunale di Torino. Si fecero avanti avventurieri e millantatori, il misterioso giordano Haq, avvoltoi. Dovette e volle far da solo. Tra quattro candidati al ruolo di general manager scelse l'ultimo, Marchetti, il più inadeguato ed inesperto. Dovette fare i conti con Moggi, abile nel promettere tutto per non mantenere niente, piazzati a prezzi altissimi calciatori bolliti e tecnici ossequienti della scuderia del figlio. A dicembre  disse basta, non tirerò fuori più un centesimo, ho dei doveri verso la mia famiglia: erano i circa 400 dipendenti della sua impresa alberghiera, messi in pericolo dal Napoli. Così i libri sociali della SSC Napoli sono tornati in Tribunale, per restarvi definitivamente. Naldi è uscito battuto, come il presidente del fallimento. Ha sbagliato, ma per troppo amore. Il tempo, galantuomo, si incaricherà probabilmente di stabilire un giorno che dopo Giorgio Ascarelli è stato il secondo presidente, nella storia del club, a pagare tanto di tasca propria. Nella foto, Totò Naldi il presidente del fallimento del Napoli
 

Carraro s’inabissa, De Laurentiis emerge

   Nelle aule del Tribunale, nei Palazzi della politica e nella sede della Federcalcio si inizia una corsa contro il tempo per evitare la scomparsa di Napoli dal panorama calcistico nazionale. Una lotta furibonda segnata da ritmi di sceneggiata con attori non tutti all’altezza del ruolo. I tifosi recitano la parte assegnata nelle tragedie greche al pubblico: spettatori ma anche coro cioè parte attiva dello spettacolo. S’innamorano di Gaucci il quale, prima di rifugiarsi in un esilio sudamericano e sfuggire ai guai giudiziari collezionati in più città italiane per vicende calcistiche, tenta la scalata al Napoli. Naldi ingannato da politici, i quali lo costringono a mortificanti peregrinazioni in istituti bancari le cui porte risultano casseforti blindate, è costretto alla resa. In pista altri due candidati: l’udinese Pozzo ed il napoletano De Luca, diventato presidente del Siena. All’ultimo momento nella Cancelleria del Tribunale, da Capri, arriva l’offerta vincente: il produttore cinematografico Aurelio de Laurentiis sbaraglia la concorrenza e fa nascere il Napoli Soccer. 2004. Si riparte dalla Serie C 1. Pierpaolo Marino , nuovo Direttore Generale, in dieci giorni allestisce una squadra affidata a Giampiero Ventura. Occorreranno ritocchi e cambi di gestione per arrivare ai play-off promozione, perduti nella doppia sfida con l’Avellino. La stagione successiva ad Edy Reja basteranno pochi ritocchi per trasformare il campionato in una cavalcata travolgente. Mentre il calcio italiano è sconvolto dalla tempesta più grave della sua storia, in cui si inabissa anche l’ "infame Carraro", il Napoli torna a rivedere il sole dei campionati maggiori. De Laurentiis mantiene la promessa, al campionato di serie B iscrive la Società Sportiva Calcio Napoli. Nella foto il famoso striscione dei tifosi azzurri contro Carraro

                                                                                                        Romolo Acampora  


Napoli capitale
 
degli slogan

  Ecco solo due degli slogan coniati nel tempo dai tifosi del Napoli per la squadra e per i suoi giocatori. I sostenitori azzurri furono particolarmente prolifici durante il periodo degli Anni Sessanta in cui nel Napoli militarono Sivori, Altafini e Canè e ovviamente nell'epoca d'oro di Maradona, quando a Napoli arrivarono due scudetti, una Coppa Uefa e altri successi. Nella foto a fianco, tifosi azzurri su un pullman in partenza per un derby allo "Stadio Olimpico" contro la Roma . Lo striscione inneggia a Canè, l'attaccante sudamericano di colore considerato da quei tifosi "migliore" del famoso trio della nazionale brasiliana, composto da Didì, Vavà e Pelè.

     Nella foto, a destra una banda musicale sfila sulla pista dello Stadio San Paolo guidata da capi-tifosi e con lo striscione che esaltava la squadra di Sivori , Altafini, Canè, Juliano, Bianchi, prendendo in prestito il titolo di una canzone di successo di Domenico Modugno : "Tu sì 'na cosa grande". Erano gli Anni Sessanta in cui la squadra azzurra, guidata da Bruno Pesaola, e costruita  da Roberto Fiore, conquistò, subito dopo il ritorno in Serie A, un terzo, un quinto e un secondo posto. Tre stagioni indimenticabili, in cui si registrarono grandi picchi di affluenza allo Stadio San Paolo.

   Il boom degli slogan e degli striscioni si ebbe, comunque, allo stadio e in città durante il periodo entusiasmante di Maradona. I due scudetti azzurri furono accompagnati da slogan fantasiosi e di grande effetto. Tra i tanti, ci piace ricordare quì quello che  apparve nella zona del cimitero di Poggioreale dopo la conquista dello storico scudetto del 1987 e le eccezionali manifestazioni di giubilo. Era evidentemente indirizzato a tutti i tifosi del Napoli defunti e recitava: "E che ve site
perso!.." ("che cosa - di bello- avete perduto!"). C'è chi sostiene che la mattina dopo comparve nella stessa zona uno striscione in cui una mano anonima rassicurava i tifosi...viventi del Napoli: "E chi ve l'ha ditto?!"  Il singolare botta e risposta all'ombra del cimitero  valicò,  in quei giorni di festa collettiva, anche i confini dell'Italia. Altri striscioni da ricordare:" Ero piccirillo e te sunnavo. Mo' ca so' viecchio, si' venuto"  "Maggio 87: l'altra Italia è vinta, è nato un nuovo impero!", " Se è nu suonno, nun me scetate...",  "Campioni d'Italia per la prima volta, signori da sempre", " E me diciste sì 'na sera 'e maggio...". Un altro striscione di grande effetto e di apprezzabile originalità apparve nella Curva Nord nei primi anni del periodo di Maradona, in occasione di un Napoli-Juve. Era steso per una buona fetta della gradinata e diceva: " Volevamo stupirvi con effetti speciali, ma siete solo bianconeri...".

          Una “straordinaria” veramente straordinaria
                                                   
di Claudio Calza

  
     Per l'entusiasmante scudetto del Napoli nel 1987 si è scritto a suo tempo di tutto, un trionfo visto da ogni angolazione: il tripudio dei giocatori azzurri campioni d'Italia, l'allenatore Bianchi eccezionalmente sorridente, le capriole di Maradona superstar, i riconoscimenti anche per gli umili portatori di palla, il presidente Ferlaino, finalmente gioioso issato sulle spalle degli spettatori, i tifosi impazziti nello stadio e in città, i massaggiatori ed i vari addetti della società, tutti coinvolti nella festa canora e bagnata di champagne sulla testa di Giampiero Galeazzi negli spogliatoi. Oggi vi presentiamo un'insolita e felice testimonianza, quella del Capo dell'Ufficio Diffusione de "Il Mattino", Claudio Calza, per illustrare come fu preparata e vissuta, all'interno del giornale, la stampa e la diffusione dell'edizione straordinaria che quella storica domenica, poco prima che finisse la partita, con cronometrica cura, invase le strade e le edicole della città per suggellare un'impresa indimenticabile. Un amarcord singolare, trascurato finora, ma  degno di figurare in questa "Napoli story".



    Uscito dal portone di casa, sono avvolto da un sole già caldo, come solo a Napoli può esserlo nel mese di maggio. Mi avvio a prendere la funicolare che porta a piazza Amedeo e percorro quel centinaio di metri senza incontrare quasi anima viva. Anche sul vagoncino, a bordo del quale ogni giorno faccio il breve tragitto, strizzato come in un barile di acciughe, le persone si contano a poche unità. Piazza Amedeo, Via dei Mille, piazza dei Martiri, via Morelli, fino alla sede del "Mattino", in via Chiatamone: il mio percorso di sempre, che faccio camminando tra una moltitudine di persone. Oggi invece l'atmosfera é diversa, quasi irreale. E' domenica pomeriggio, esattamente domenica 10 maggio 1987 e in giro continua a non esserci nessuno. Dalle finestre aperte arriva la voce concitata di un radiocronista che, dagli altoparlanti delle radio, tenute ad un volume allucinante, racconta le prime fasi di un incontro di calcio. Anzi, dell'incontro di calcio.
   Questa infatti é una giornata storica per la Napoli calcistica.... macché, per Napoli tout court, perché non esiste un napoletano che non si interessi di calcio e non sia tifoso della sua squadra. Una giornata storica, dicevo, perché allo stadio di San Paolo a Fuorigrotta, si gioca, per la penultima giornata di campionato, Napoli-Fiorentina, che presenta una curiosa caratteristica. La squadra del Napoli é in testa alla classifica mentre la Fiorentina sta rischiando di retrocedere in serie B. La posizione delle due squadre però é tale che ad entrambe basta un risultato di parità: al Napoli, per vincere matematicamente lo scudetto con una giornata di anticipo, alla Fiorentina per garantirsi, con altrettanta sicurezza, la permanenza in serie A. Si può dire quindi che, per come vanno da sempre le cose nel calcio, certamente l'incontro finirà in pareggio.
   E, proprio in considerazione di questa più che probabile ipotesi, al giornale si è deciso di preparare un'edizione straordinaria, ovviamente prefabbricata, dedicata appunto a questo avvenimento, non ancora realtà, ma prossimo venturo. Un giornale “storico” da conservare. La prima pagina è occupata da un grande scudetto tricolore che lascia spazio ad un grande titolo: "E' scudetto, Napoli una città in festa". Seguono molte pagine con la storia di quel campionato incredibile che si stava concludendo con il primo titolo italiano nella storia di Napoli. Lo stava conquistando la squadra di Garella, Bruscolotti, Ferrara, Bagni, Di Napoli, Carnevale, Careca e soprattutto di Diego Armando Maradona, il fuoriclasse argentino, il cui arrivo aveva fatto impazzire la città. Alla sua presentazione ufficiale, avvenuta sul prato dello stadio San Paolo, c'era il tutto esaurito. Lui, in jeans e maglietta bianca, con la sciarpa della squadra al collo, aveva palleggiato mostrando la sua straordinaria abilità da foca ammaestrata, accerchiato da centinaia di fotografi. Pochi minuti di show, un cenno di saluto ed é stato subito amore. Un amore sviscerato, irrazionale, totale.
  Un amore che il riccioluto tombolotto aveva comunque ampiamente ricambiato, facendo a Napoli il più insperato dei regali. In città non si parla che di lui; tutti lo vogliono, tutti gli ambienti, dal più popolare, al più raffinato, al più "chiacchierato" se lo contendono per esibirlo, onorarlo, fino a farlo diventare un idolo, un santino. Non é un'esagerazione. Ho conosciuto gente che ha ricavato in un angolo del suo basso, un altarino con la foto del "Pibe de oro" circondata da lumini, candeline, fiori e quant'altro. Lo stesso trattamento riservato da sempre a San Gennaro. La gente l'avrebbe voluto come sindaco e, se lui si fosse seriamente candidato, avrebbe stravinto contro chiunque. E’ un ragazzo molto semplice, generoso, disponibile. I suoi "gestori" se lo portano a spasso come un bagaglio appresso, facendosi pagare più che profumatamente le comparsate. Attorno alla sua immagine é stata costruita un'azienda molto florida, che prevede lo smercio dei più disparati gadget e che è diventata in breve una miniera d'oro. La sua villa a Posillipo è meta di ininterrotti pellegrinaggi da parte dei suoi fans, con l'unico scopo di intravederlo, attraverso il cancello, mentre gioca con le due figlie e con la bella moglie, e strappargli un cenno di saluto, un sorriso.
   Ma torniamo a oggi. La tiratura, molto sostanziosa, dell’edizione straordinaria è pronta "in ribalta", come si dice in gergo per indicare il punto di carico dei giornali destinati ai punti di vendita. La redazione si è impegnata alacremente e ha realizzato una “straordinaria” di eccezionale bontà. Il direttore Pasquale Nonno ha seguito affettuosamente il lavoro, il redattore capo Riccardo Cassero, per decenni testimone delle vicende azzurre come Capo dei Servizi Sportivi, finalmente può dedicarsi ad uno scudetto, a una festa che si portava dentro da anni, e predispone l’edizione speciale, insieme col responsabile della Redazione Sportiva, Romolo Acampora, abile ed esperto nocchiero di un gruppo di agguerriti colleghi, primi fra tutti Giuseppe Pacileo, Enzo Casciello, Franco Esposito, Sergio Troise, Pierpaolo Paoletti, Danilo di Tommaso, Gianfranco Coppola. Per la distribuzione, ci siamo accordati con gli edicolanti perché, attorno alle cinque, poco prima della fine della partita, loro aprano le rivendite, pronti a ricevere le preziose copie che noi faremo loro pervenire in tempo utile. Ed é proprio su questo "tempo utile" che dovevamo lavorare sul filo del rasoio. Prima di far uscire dal magazzino le copie, dovevamo essere certi del realizzarsi di quanto ipotizzato, cioè la vittoria o, almeno, il pareggio del Napoli. Guai se fosse andato in vendita un giornale che annunciava, trionfante, un avvenimento che non si era ancora verificato. Avremmo fatto la figura dei peracottari. Per contro, non potevamo prendercela troppo comoda, perché avremmo rischiato di trovarci con i furgoni intrappolati nella marea di tifosi che, uscendo dallo stadio, avrebbero invaso festanti le strade senza troppo preoccuparsi delle esigenze editoriali del Mattino. Anche se, c'è da dire, che il grosso del traffico sarebbe stato pedonale. Infatti, in vista di questo appuntamento, che avrebbe potuto essere determinante ai fini dello scudetto, Maradona aveva fatto un appello a tutti i tifosi affinché andassero allo stadio a piedi, o con i mezzi pubblici, proprio per non rischiare di ingolfare il traffico, con le macchine, all’uscita. Conoscendo gli italiani, che se potessero, andrebbero anche a letto con l'automobile, si stenterà a crederlo, ma oggi, nel parcheggio del San Paolo, le auto si contano a poche decine.
   Per tornare a noi, l'organizzazione era la seguente: Massimo Garzilli, il direttore amministrativo, sarebbe stato di vedetta allo stadio, in tribuna stampa, con il cellulare in fibrillazione. Per lui stare lì era normale. Quando la squadra giocava in casa, lui al San Paolo c'era sempre e la sua partecipazione alla partita era tale che, per i due o tre giorni seguenti, sarebbe stato costretto ad esprimersi a gesti. Noi operativi eravamo invece in stand by nella sede del giornale seguendo le vicende della partita attraverso la radio. Quando arrivo in redazione, all'interno della guardiola vedo un usciere, di cui purtroppo non ricordo il nome. Grosso, sanguigno, con i colori del Napoli nel DNA, ha l'orecchio incollato alla radiolina e nemmeno mi vede. Probabilmente, oggi in sede potrebbe entrare impunemente tutto l'esercito americano. Poco tempo fa, una domenica pomeriggio, stavo andando a dare un'occhiata per vedere come sarebbe stata l'edizione del lunedì, quando, passando dalla portineria, lo vedo schizzare dalla guardiola agitando le braccia. Si vede che vorrebbe gridare qualcosa, ma non gli esce la voce dalla strozza. Crolla in ginocchio e dà l'impressione di non riuscire più a respirare. Dobbiamo farlo portare al Pronto Soccorso. Che cos’era successo? Niente di grave: il Napoli aveva solo segnato un gol alla Juventus.
   Davanti all'ascensore incontro Marino: "Il Napoli ha segnato" - mi fa. Cominciamo bene. Possiamo guardare al nostro programma con più serenità. Su al terzo piano c'è tanta gente, addetti ai lavori e non, per vivere assieme quella che si annuncia come una grande festa. Davanti alla finestra, che si affaccia sulla via Chiatamone, un pupazzo gigantesco, con la maglia n.10 di Maradona, galleggia nell'aria, ancorato ai cavi della corrente. Ma tutta la città é imbandierata; si va dai festoni formati da sacchetti bianchi e blu del supermercato agli striscioni più fantasiosi. Senza contare le pareti, l'asfalto delle strade, i gradini tutti dipinti, sempre di bianco e blu. Nei giorni scorsi, i napoletani hanno dato fondo a tutte le scorte di vernice di quei colori per dipingere a festa la città.
   All'improvviso arriva il pareggio della Fiorentina. Come previsto. A questo punto, ci sarebbe da scommetterci la casa che questo 1-1 si trascinerà stancamente fino alla fine, anche se manca ancora parecchio alla conclusione. Chiamo il direttore allo stadio: "Ci siamo. Tutto come previsto. Faccio partire le macchine?". "No, non ancora - la sua voce é roca - aspettiamo un po'. C'è tempo". E' chiaro che la scaramanzia gioca il suo ruolo fondamentale nella vicenda. "Ok - gli rispondo - però non facciamoci sorprendere dalla fine, altrimenti non riusciamo più a muoverci". Il tempo trascorre troppo lentamente. Sul campo, i giocatori delle due squadre continuano a passarsi il pallone tra di loro per paura di farsi male. L'arbitro stesso non vede l'ora che tutto finisca. Mancano meno di dieci minuti. Richiamo Garzilli. "Direttore, mi dia il via, per favore!". Mi risponde con un filo di voce: "Ancora qualche minuto, non si sa mai...." e riappende per farmi capire che non ammette repliche. Scendo in ribalta. I portatori hanno caricato i giornali, alcuni sono già al volante. Mi guardano interrogativamente. So che mi sto giocando il posto, ma in quel momento sento solo la mia voce che dice: "Andiamo ragazzi!". Macché Indianapolis, Daytona, Monza o Imola; la loro partenza é da cinematografo. Scattano a razzo tutti assieme e non so come facciano a non impastarsi uno con l'altro. Chi non ha mai visto il vicolo sul quale si affaccia il “punto di carico” del “Mattino”, non può rendersi conto di quanto San Gennaro si sia dovuto dar da fare per mantenere incolumi quei bravi ragazzi.
   Tiro un sospiro di sollievo, anche se, teoricamente, il mio posto di lavoro vacillerà ancora per qualche minuto. L'arbitro ha già il fischietto in bocca per decretare la fine dell'incontro, quando squilla il telefono: "Ecco, ora le macchine possono partire". "Direttore - rispondo con soddisfazione - se si affaccia sul piazzale esterno, vedrà gli strilloni già al loro posto, in attesa dell'uscita della gente". "E le edicole?"; "Sicuramente i portatori stanno ultimando le consegne. Operazione compiuta". "Bel lavoro, grazie!". Però, ripensandoci, quel diavolo di un Massimo tutti i torti non li aveva a tergiversare. Gli spettatori, infatti, non si decidono ad uscire e si attardano ancora sugli spalti ad applaudire. Proprio così, sugli spalti e non a sciami sul campo da gioco, come sarebbe stato prevedibile. Merito anche questo di Maradona, che, dopo aver indotto la gente a lasciare a casa la macchina, li ha convinti, con un successivo appello, a rimanere disciplinati sulle gradinate. Saremo noi - ha proclamato il ducetto - a venire a salutarvi sotto le tribune e a regalarvi le nostre magliette, le nostre scarpe, i nostri pantaloncini. Risultato: nemmeno il più scalmanato dei tifosi ha saltato il fosso che circonda il campo da gioco. Un fatto del genere a mia memoria non si era mai verificato, soprattutto per un primo scudetto assoluto. Compiuto il rito, come un fiume in piena, gli ottantamila del San Paolo si riversano sulle strade, mischiandosi alla gente che ha vissuto l'evento in casa, con l'orecchio alle radioline. E a questo punto: che la festa abbia inizio!. Chi non era quel giorno a Napoli non può nemmeno lontanamente immaginare le scene che si sono succedute lungo le strade dell'intera città. A piedi, in motorino, stipati su macchine e furgoni addobbati in biancoazzurro, i napoletani si abbandonano alla gioia più sfrenata. Gli occhi irripetibili delle ragazze (“Uocchio de suonne, nire, appassionate”, cantava Salvatore Di Giacomo) brillano, se possibile, ancora più vivaci. Per riandare a tanta festa, personalmente, devo risalire a oltre 40 anni fa, all'aprile 1945, quando gli alleati entrarono a Parma, dove vivevo, liberando dall'occupazione nazista una città, i cui abitanti da giorni bivaccavano nelle cantine,. Ebbene, così come a Parma nel 1945, potrò dire che anche a Napoli, quel 10 maggio 1987....c'ero anch'io.
   Quell’edizione speciale del giornale é andata ovviamente a ruba e, per diversi giorni a seguire, il nostro Ufficio Diffusione continuerà a riceverne richiesta. A coronamento, il “Mattino” pubblicherà qualche giorno dopo, un volume dal titolo "Dalla festa all'Europa". Il libro, curato da Pietro Gargano, Riccardo Capace e Maurizio Mendia, riporta gli articoli, tra gli altri, di apprezzati scrittori e giornalisti, Raffaele La Capria, Max Vairo, Luigi Compagnone, Michele Prisco, Carlo Bernari, Romolo Acampora, Franco Esposito, Carlo Franco e Walter Pandimiglio, ed è ricco di splendide foto che testimoniano della festa. Particolarmente curiose sono quelle degli striscioni che erano stati appesi un po' dovunque in città: "Scusate il ritardo", "Napoli campione d'Italia: ma che r'é v'abbrucia 'o culo?", "Maradona v'fa abballà 'o tango", "Gira, gira, gira, nun te fermà cchiù", "E me diciste sì 'na sera 'e maggio", "Maradona ssì megli'e rraù 'e mamma". Addirittura, nei pressi del cimitero di Poggioreale, ne è stato messo uno che recitava : "Che vi siete perso!".
   E' mezzanotte passata quando riprendo, a piazza Amedeo, la funicolare per rientrare a casa. La festa é ancora nel pieno e durerà tutta la notte. E' una festa gigantesca, globale, ma semplice. Botti come a capodanno, fracasso di clacson e grida di felicità. Napoli è fatta così, è naif, spontanea, generosa, entusiasta. Oggi si scatena per lo scudetto, ma non ha mai fatto mancare il suo calore alla squadra nemmeno nei periodi bui, come quelli della serie B. Tutt’al più, in quei momenti, potrà riandare con malinconia al ricordo dello squadrone irripetibile di Maradona e, se proprio non potrà evitare di fare dei confronti, li farà con la consueta ironia, ispirandosi magari al grande Eduardo: “Tu che dice? Chest’è rraù?/ E io m’’o magno pe m’’o magnà/ M’’a faje dicere na parola?/ Chesta è carne c’’a pummarola”.
                                                                                                      Claudio Calza

Nelle foto, due immagini della festa-scudetto a Napoli; al centro l'abbraccio, nel San Paolo in tripudio, tra Corrado Ferlaino e Gianni Punzo, vicepresidente di quel Napoli.
 

                      La più bella risposta del San Paolo

   Napoli ha sempre avuto un rapporto particolare con gli striscioni sul campo. La fantasia e l'arguzia napoletana si sono spesso trasferiti nelle scritte esposte dai tifosi sugli spalti, in risposta ai "messaggi" troppo spesso offensivi esposti dai sostenitori delle squadre avversarie, soprattutto quegli striscioni  ispirati al razzismo e ideati, o meglio dire, rovesciati contro la città partenopea e i suoi tifosi, negli stadi  che da sempre dimostrano livore, prevenzione, pregiudizi nei confronti dei napoletani. Intendiamo riferirci soprattutto, ai tifosi di Bergamo, Como, Brescia e Verona , dove spesso sono stati registrati - insieme con striscioni offensivi - comportamenti volti a provocare gli avversari e a generare disordini ad ogni costo. Certo, il tifo napoletano  non fa sconti a nessuno, basti pensare all'assillante striscione "Carraro infame" che ha accompagnato le partite del Napoli al San Paolo e in trasferta, nell'ultimo campionato di Serie C, a dispetto delle multe-record e delle minacce di squalifica. In svariate occasioni sono partite bordate dagli spalti del San Paolo , come in tutti gli stadi, ma a Napoli si è preferito più spesso  far ricorso all'ironia, alla "battuta". Non ricordiamo, ad esempio, casi  di antisemitismo, o di accenni pesanti alla politica, come avviene, invece, in altri stadi, soprattutto a Roma. Insomma, i tifosi del Napoli hanno quasi sempre incassato l'offesa, invece che ricambiarla con eguale moneta. Quante volte abbiamo dovuto registrare striscioni al Nord con le scritte "Benvenuti in Italia!, Africani, Lavatevi!", "Vesuvio pensaci tu!, Forza Vesuvio!", quest'ultimo esposto durante un incontro Verona-Napoli, e dipinto sull'autostrada alle porte di Verona, con l'auspicio di un'eruzione distruttrice. I tifosi napoletani alla prima occasione al San Paolo non si scomposero - come si era temuto dopo certe offese becere, con atteggiamenti pesanti, ma risposero con un gigantesco striscione su cui scrissero: "Giulietta è 'na zoccola e Romeo è cornuto". Notare la sublime differenza di genialità tra le due tifoserie.
    Del resto, una delle prime impressioni che Maradona raccolse quando cominciò a giocare nel Napoli fu proprio il clima ostile che accompagnava sistematicamente la squadra azzurra al Nord. Ecco le sue considerazioni, raccolte qualche anno dopo: " Nel 1984, il mio primo campionato italiano, debuttammo a settembre in trasferta contro il Verona. Ce ne fecero tre. Loro avevano il danese Elkjaer Larsen e il tedesco Briegel...Il tedesco mi diceva "taci!", e mi buttava a terra o fuori del campo. Ci ricevettero con uno striscione che mi aiutò a capire di colpo che la battaglia del Napoli non era solo calcistica: "Benvenuti in Italia" diceva. Era il Nord contro il Sud, i razzisti contro i poveri. Chiaro, loro finirono vincendo il campionato e noi...Ma quello striscione di Verona che mi aveva colpito nella mia prima partita della  carriera in Italia, non lo avevo dimenticato. Per quel "Benvenuto in Italia" indirizzato ai napoletani arrivò però subito il momento della rivincita, la vendetta... Accadde nel febbraio del 1986, il campionato successivo. Tutta la curva del "Bentegodi"  gridava "Lavatevi! Lavatevi!". Ci stavano battendo per 2 a 0, i napoletani erano offesi indignati. Ad un certo momento, nella ripresa, ci meritammo un rigore ed io spiazzai Giuliani e segnai. Poi a pochi minuti dalla fine,  toccai io la palla, pim!, un difensore sbagliò, ancora un mio gol ed ecco il 2-2. Festeggiammo come se avessimo vinto la Coppa dei Campioni. E aggiungo che tutti quelli del Napoli che stavano in panchina, invece di venire ad abbracciare noi, andarono a mettersi sotto la curva che più di tutti aveva gridato "Lavatevi! Lavatevi!". Eravamo così, così era la squadra e così era la città dove giocavamo e vivevamo". E nella partita a Fuorigrotta col Verona ci fu un 5-0 senza risparmio, con uno straordinaio gol da centrocampo di Diego a Giuliani!
   Nella vasta gamma di striscioni apparsi al San Paolo e in trasferta, preferiamo pubblicare  qui proprio quelli "offensivi", razzisti, soprattutto veronesi, ai quali i tifosi azzurri vollero rispondere a Fuorigrotta in maniera così colorita e ricca di fantasia, con lo slogan divenuto famoso: "Giulietta è 'na zoccola e Romeo è cornuto"

Ecco, a destra, il famoso, evidente
striscione apparso nella Curva B del San Paolo in risposta alle dure offese dei tifosi veronesi. Si legge: "Giulietta è una zoccola e Romeo cornuto"

 

                       La superstizione è nata a Napoli
 

   Corna, cornetti, amuleti, incenso scaccia jella, gobbetti, ferri di cavallo, tagli di baffi e di capelli e molte altre forme di superstizioni sul terreno di gioco, sulle tribune, negli spogliatoi. Il fenomeno è mondiale, la scaramanzia è la regina del calcio, nessuno vuole interrompere i suoi riti, ma da sempre Napoli detiene anche questo singolare record nel campo delle...prevenzioni. Nonostante i continui aggiornamenti scientifici e tecnici, il calcio è stato sempre ricco di episodi scaramantici e propiziatori. La verità è che nei calciatori impera la paura che, a parte la preparazione atletica e i recenti sviluppi degli schemi tattici, esistono anche episodi importanti legati al caso, alla sfortuna e al malocchio. Anche la superstizione scende, quindi,  in campo nelle partite di football.
    Non è vero, ma ci credono. I calciatori, gli allenatori, i presidenti cercano di tenere nascoste le loro manie, non è facile venire a conoscenza di questi loro piccoli segreti, ma quasi tutti  hanno un amuleto o un rito per proteggersi contro le energie negative. Chi non crede nel malocchio crede però nell'invidia della gente e quindi si fa egualmente imbambolare dalla superstizione. Napoli capitale della scaramanzia non poteva, quindi,  salvarsi da questi strani culti radicati nel mondo del calcio. Tifosi che siedono sempre allo stesso posto sugli spalti (e a casa quando vedono la TV...), abbigliamenti studiati e ripetuti, giocatori che scendono in campo  senza essersi rasati (esempio storico quello di Amadei), giocatori che baciano, come liturgia,  le immagini sacre sistemate negli spogliatoi, (come accade nel sottopassaggio del San Paolo), avvicinarsi ad una delle due reti  (lo facevano Sivori e Maradona al San Paolo) e calciare in gol  a porta vuota, prima della partita,  tifosi che hanno nelle tasche un corno, il solito collaudato corno di colore rosso,  apprendisti "stregoni", esorcisti che bruciano incenso davanti alle porte, manciate di sale lanciate dagli spalti sul terreno di gioco contro il malocchio, calciatori che entrano sempre per primi in campo dal tunnel degli spogliatoi, l'allenatore Pesaola che sedeva in panchina indossando (senza necessità di stagione...) un cappotto color cammello (imitato poi da  Renzo Ulivieri, ancor oggi,  con un eterno impermeabile a 3/4). Pesaola portò ovviamente con sè il cappotto  quando si trasferì a Firenze, ma dopo un po' il soprabito fu smarrito (o rubato?) negli spogliatoi, con grande rammarico del petisso. Pesaola si preoccupava ovviamente anche della ripetitività millimetrica del rito: quando allenava la Fiorentina portava con sè sempre un disco di Peppino Di Capri. Giunto a Genova per una partita con la Sampdoria, si accorse di essersene dimenticato. Tornò in macchina a Firenze per riprendere il disco. Poi vinse davvero la la partita. Una delle massime coniate dal "petisso": "Nel calcio occorre classe, furbizia fantasia, ma anche molto  ... sedere. Il pallone, infatti, può finire in porta, ma con la stessa forza, la stessa direzione, la stessa mira, può finire anche sul palo...".
       Sempre a proposito di Ulivieri, il giornalista de "Il Mattino", Francesco Marolda racconta che per risollevare il morale dell'allenatore, in crisi di risultati, una domenica gli regalò un cornetto di corallo: il Napoli stava perdendo per 1-0, quando l'allenatore azzurro mise una mano in tasca e quasi inavvertitamente toccò il cornetto pungendosi. Dopo di che la sconfitta si trasformò in vittoria e negli spogliatoi Marolda, recatosi per la rituale intervista, fu accolto a braccia aperte dal tecnico azzurro... riconoscente. Tra i riti di  Maradona (che entrava sempre sul terreno di gioco ccol piede sinistro), il più noto era quello del bacio sulla fronte del fedelissimo massaggiatore Carmando prima delle partite, come faceva anche Blanc col portiere francese Barthez. L'attaccante azzurro del 1996 Nicola Caccia , invece,   quando scendeva in campo strappava due fili d'erba e li masticava.
       E fuori da Napoli  il rito del presidente di origine campana, Enrico Preziosi, che in giacca e cravatta, a fine partita (vittoriosa) corre sotto la gradinata Nord, si toglie la cravatta e la regala a un tifoso, Vittorio Cecchi Gori che, incurante del pericolo, saliva sulla balaustra dello stadio di Firenze, il presidente del Livorno Aldo Spinelli che ha portato per un campionato intero la stessa sciarpa ed ora indossa sempre un impermeabile di color giallo portafortuna (nella foto a fianco), Trapattoni che in panchina, ai mondiali nordcoreani, versava di nascosto a terra l'acqua santa conservata in una boccettina. Il compianto e folcloristico presidente dell'Ascoli, Costantino Rozzi, che indossava alle partite appariscenti calzini rossi corti. Insomma, tutta una serie di gesti particolari e senza scopo pratico, ripetuti  solo perchè erano stati casualmente compiuti prima di una gara in cui la squadra del cuore si era dimostrata particolarmente  brillante o vincente.
  Atteggiamenti ripetitivi e ben consolidati per scongiurare le maledizioni e tante e tante altre "manie" , che si perpetuavano e vengono ancora tenute in vita, oggi soprattutto, grazie ai massaggiatori (il masseur napoletano Michelangelo Beato fu uno di questi irriducibili). E che dire di Eraldo Monzeglio, l'allenatore della promozione in  A del Napoli nel 1950? Pochi lo sapevano, ma aveva la fissazione di andare a fare i suoi bisogni, sistematicamente, nello spogliatoi dell'arbitro prima delle partite al Vomero; sempre lo stesso locale per i film del sabato sera, tutti insieme, indifferente alle proteste di qualche giocatore azzurro che la pellicola l'aveva già vista; la domenica dopo la colazione in un ristorante di San Martino (la squadra andava in ritiro all'Hotel Sant'Elmo), era obbligatorio il percorso a piedi fino allo stadio, obbligatorio anche il mini torneo di bigliardo nella sede sistemata nella Palazzina del Vomero (dove attualmente c'è il liceo Pansini) e poi il tradizionale dono di cravatte a chi aveva giocato meglio. Tutti riti che "portavano bene" e ai quali il mister piemontese (ispirato dal massaggiatore Beato) non riusciva a sottrarsi. Napoli, insomma,  si è sempre contraddistinta rispetto alle altre città, soprattutto quelle del Nord, com'è documentato nelle foto che presentiamo: in alto, un tifoso azzurro degli Anni Trenta con un grosso corno di bue in evidenza nello Stadio Ascarelli, dietro la porta di Cavanna; al centro, un presunto "esorcista" partenopeo in azione con incenso davanti ad una porta dello Stadio del Vomero, durante un periodo di magra della squadra azzurra, mentre nella  foto a sinistra Michelangelo Beato consegna al portiere azzurro Bugatti un cornetto portafortuna da sistemare tra le maglie della rete. Infine, in fondo, l'allenatore partenopeo Bruno Pesaola con il famoso cappotto color cammello portafortuna che il petisso usò a Napoli per lungo tempo. Lo indossava anche a primavera (come dimostrano i due dirigenti seduti in panchina coperti dalla sola giacca...). Nello stesso periodo, il presidente del Napoli Roberto Fiore aveva una cravatta che tirava dal cassetto in occasione di gare particolarmente importanti.
       
Ma ricordiamo anche altri atteggiamenti maniacali nel resto del mondo  calcistico in questa specie di liturgia del successo: Cesare Prandelli fa quasi sempre dire la messa per i suoi giocatori la domenica mattina; Carlo Ancelotti è stato ripreso dalla TV di recente in panchina col rosario tra le mani; Fabio Capello si faceva portare sistematicamente tre caramelle da un tifoso prima della partita; Nils Liedholm era così superstizioso (nonostante la sua origine svedese) da chiedere aiuto nella scelta dei titolari ad un mago di Busto Arsizio; Adriano Galliani si aggrappa ancor oggi alle sue sgargianti cravatte gialle; il portiere Storari nasconde due immagini della Madonna sotto le fasce che gli avvolgono i polsi; il nazionale francese Blanc, come abbiamo detto,  baciava la pelata del portiere Barthez (e il gesto spettacolare portò molta fortuna a loro due ed alla nazionale transalpina,  vittoriosa ai mondiale in Francia e ai successivi europei); il rumeno Adrian Mutu indossa gli slip al contrario prima di andare in campo per proteggersi dagli infortuni; il napoletanissimo portiere Coppola in tutte le partite affigge l'immagine della Madonna di Loreto su un palo della sua porta; Marco Tardelli quando segnò il famoso gol - quello dell'urlo -  nella finale dei  mondiali dell'82 in Spagna, contro la Germania, aveva un'immagine sacra nascosta nei parastinchi. Lo ha svelato recentemente, a 24 anni di distanza,  la figlia, Sara, in un articolo su un settimanale femminile. E per restare in tema di nazionale, Gigi Riva, indimenticato goleador del Cagliari, negli Anni 60,  non ha mai potuto perdonarsi di essersi rotto una gamba l'unica volta che in azzurro accettò di rinunciare alla sua abituale maglia numero undici.
    Degno di essere raccontato, infine,  quanto avvenne al grande Pelè, un fuoriclasse che non aveva certo bisogno di essere "protetto" dalle scaramanzie e rimasto anche lui intrappolato in questo mondo di scongiuri. Capitò che una volta il campionissimo brasiliano regalò la sua maglia ad un tifoso, ma la domenica giocò male e perse a sorpresa la gara. Pelè chiese  allora ad un suo carissimo amico che frequentava gli spogliatoi di rintracciargli il tifoso al quale aveva inopinatamente donato la maglietta e di recuperarla. Una settimana dopo l'amico si presentò puntualmente negli spogliatoi con la maglia e sottolineò quanta fatica gli fosse costata recuperarla. Pelè espresse tutta la sua gratitudine, indossò la maglia, recuperò i suoi spunti magici e segnò anche il gol della vittoria. L'amico si guardò bene dal riferirgli che si era limitato a consegnargli la stessa maglia con la quale Pelè aveva perduto la settimana prima.


     
Le vittorie figlie di un patto tra azzurri e Società

 
       di Francesco Marolda
 

     C’è modo e modo di vincere una gara. E anche d’arrivare ad un successo assai importante. A volte basta una giocata. Un’invenzione. Un disegno perfetto con la palla. Altre volte può bastare pure un patto. Un giuramento. Proprio così. E a giudicare dalla storia azzurra i patti da spogliatoio valgono parecchio, visto che poi hanno sempre regalato buoni risultati. In verità non c’è un archivio-patti, una raccolta attenta e meticolosa dei segreti più segreti degli azzurri. Si va a memoria. E la memoria riesce a tornare indietro sino a quarant’anni fa.

 
1966 : gli stipendi di Lauro - Datato 1966 il primo patto azzurro. «C’era una questione di stipendi. Si gioca? Non si gioca? Arrivammo alla vigilia del match col Cagliari di Riva e tutto era ancora incerto. Al punto che - racconta Enzo Montefusco - nello spogliatoio arrivò il Comandante Lauro in persona. Venne a dirci che dovevamo andare in campo. Che non avrebbe tollerato un ammutinamento. Antonio Juliano, che di quel Napoli era il capitano, però gli tenne testa. Gli ribadì le nostre ragioni e gli disse che avremmo giocato soltanto se lui, lui in persona, si fosse impegnato a pagare gli arretrati. Juliano La spuntò. Noi la spuntammo. In verità, ora lo posso dire, mai avremmo tradito i nostri tifosi, avremmo giocato ugualmente, però ci sentimmo ancora più impegnati. Come finì? Andammo in campo e vincemmo noi».

 
1985: la pace tra due gruppi - Quasi vent’anni dopo un altro patto. Storico stavolta. Il Napoli non andava granché bene e il club ordinò a Marchesi un ritiro lungo. Squadra dal due al sei gennaio a Vietri, in un albergo con bella vista sul mare nero dell’inverno. Tutti là. Tutti, ma non Maradona che contestò lo spirito punitivo di quella decisione. E ci volle tutta la pazienza e l’amicizia di Beppe Bruscolotti per convincere Diego a unirsi al resto della squadra. «Maradona ci raggiunse, tra noi furono giorni di confronto e fu la svolta. Mi piace pensare che forse partì da lì, da Vietri, la cavalcata azzurra verso scudetti e coppe». Bruscolotti giura che non c’erano divisioni in quello spogliatoio. Segreti d’antico capitano e mai traditi, mai svelati. Però nessuno ha mai smentito che Vietri in realtà sancì la pace tra due gruppi: quello che faceva capo a Maradona e quello che invece s’identificava in Bagni. Una pace benedetta, se è vero come è vero che quel Napoli che andava maluccio in campionato trasformò la sua stagione arrivando a sfiorare la qualificazione per l’Europa.

  1989: un giuramento per la Coppa - L’Inter dei record e di Trapattoni corre verso il tricolore. Al Napoli secondo in classifica non resta che la Coppa Uefa. Nei “quarti”, però, a Torino, gli azzurri s’arrendono alla Juve per 2-0. Una stagione che s’avvia verso la delusione, ma Bianchi e squadra non ci stanno e stringono un patto per la Coppa. E così, accade che al ritorno la Juve è battuta per 3-0. con un gol di Renica nei “supplementari”. Un giuramento ripetuto poi contro il Bayern di Monaco in semifinale e infine contro lo Stoccarda. E fu il trionfo. Figlia di un patto, dunque, anche la coppa Uefa.

  1994: tutti con Lippi per l’UEFA - L’anno di Lippi, l’anno in cui il Napoli che da mesi e mesi non prendeva lo stipendio pensava più alla messa in mora che al pallone e agli avversari. Stava prendendo una brutta piega la stagione e allora Lippi radunò la squadra e parlò da uomo forte. Rimise assieme il gruppo, lo ricompattò, gli diede forza e con i giocatori strinse un patto: rispondere con l’impegno e i risultati alle carenze e alle promesse non mantenute della società. Ebbene, quel Napoli di Ferrara e Cannavaro, lanciato da Lippi in quella stagione, all’ultima giornata addirittura conquistò la zona Uefa vincendo a Foggia per 1-0. Di Di Canio il gol.

  2006: la notte di Castelvolturno - Il Napoli è primo, sogna la promozione in B, ma qualcosa s’inceppa nel meccanismo azzurro che a Castellammare di Stabia va in frantumi. È il 19 febbraio quando gli azzurri escono sconfitti malamente da qual primo derby della storia. De Laurentiis fiuta il rischio del crollo della squadra e alza la voce. Raduna tutti a Castelvolturno e nel silenzio d’una notte senza luna interroga e discute con gli azzurri. Richiama il gruppo ai suoi doveri e rimette assieme i cocci della squadra. Ebbene, da quel momento il Napoli non si ferma più e con bell’anticipo brinda al ritorno in serie B.
                                                                                               Francesco Marolda

           
Radiocronache di calcio , a Napoli i precursori


     “Amici sportivi vi parlo dallo stadio del Partito in Roma dove sta per disputarsi l’incontro finale di questa seconda Coppa del Mondo. Sono di fronte Italia e Cecoslovacchia. E’ presente il Duce! Stadio gremito all’inverosimile. In tribuna oltre 250 giornalisti convenuti da ogni parte del mondo. I posti in tribuna sono esauriti da alcuni giorni benché costassero ben 60 lire! A quanto ci ha confermato Pozzo, pochi minuti fa, gli azzurri scenderanno in campo nella seguente formazione: Combi, Monzeglio, Allemandi, Ferraris IV, Monti, Bertolini, Guaita, Meazza, Schiavio, Ferrari, Orsi”.
    E’ questo il primo minuto della radiocronaca che, il 10 giugno del 1934, Nicolò Carosio fece della finale di Roma dei “mondiali” di calcio che si contraddistinsero per questa caratteristica: furono il primo grande evento sportivo “mediatico” della storia, proprio grazie all’introduzione della Radio e delle radiocronache. E “ascoltiamo” ancora dalla voce di Carosio quel giorno:
…da Schiavio ad Orsi, intercetta Cambial che si libera del pallone in direzione di Puc. Puc riceve, fugge, supera Ferraris, poi Monzeglio. Stringe al centro e lascia partire un tiro. Esce Combi, sfiora la palla…” attimo di sospensione del telecronista “…ed è gol. Niente da fare aggiunge Carosio sconsolato - l’Italia è in svantaggio per una porta a zero, ed è il 25’ del secondo tempo.” Poi al 36’ Orsi, con un’azione personale, trafigge il valoroso Planicka e Carosio si rianima, incita, quasi spinge il pallone nella porta dei boemi. Il secondo tempo si chiude così in parità: 1-1. Cinque minuti di sosta e l’arbitro dà inizio ai supplementari. “ Quarto minuto, Guaita verso Meazza, no, è Schiavio, supera Ctyroky, tiro …è rete, rete, rete! 2 a 1” Stavolta senza sospensione nella voce strozzata del radiocronista, l’Italia vince, è campione del mondo. Schiavio sviene per alcuni attimi, sommerso dall’abbraccio dei compagni. Carosio non si raccapezza più, sembra che lui stesso sia sul terreno di gioco a far festa con gli azzurri ed il suo entusiasmo si dilata nell’etere verso milioni di italiani in ascolto accanto alle rudimentali radio a valvole sparse in moltissime case ed accese a pieno volume nei circoli, nei bar, nei caffè di tutta Italia. Un evento eccezionale con speakers di quattro lingue e diffusione in nove Paesi.
      Fu Carosio, quindi il primo a festeggiare la laurea di campioni del mondo conferita agli azzurri nel 1934 e nel 1938. Fu anche lui a proporre all'EIAR una radiocronaca: l'aveva ascoltata alla radio dall'Inghilterra e si era detto "perché non provare anche in Italia?" Il 1 gennaio 1933 debuttò davanti al microfono per trasmettere la prima radiocronaca della storia italiana. L'occasione fu Italia- Germania, dallo stadio "Littoriale" di Bologna, fatto costruire da Mussolini. Per la cronaca la partita finì 3 a 1 per l'Italia. Dopo quella partita, Carosio conquistò i tifosi in  trentacinque anni di carriera, quasi tremila radiocronache.  Otto mondiali, Olimpiadi, Coppe e tantissimi campionati, migliaia di  appuntamenti, ogni volta preceduti da un rito e da un'esigenza : gargarismi con acqua salata.
    Si è sempre detto che Carosio, grande "illusionista del calcio", ormai prigioniero del suo linguaggio,  realizzasse le  radiocronache indipendentemente da quello che accadeva sul prato, sicché le partite erano due, quella vera in corso di svolgimento e quella “virtuale” che il mitico radiocronista si compiaceva di raccontare, per farci sognare (come voleva lui). Poi si è sostenuto che la televisione, e le radiocronache ascoltate con le radioline sul campo, abbiano scoperto le sue magagne, ma tutto questo non sminuisce il valore di Carosio e l’emozione che riusciva a suscitare, con la sua voce entusiasta. Resterà sempre un mito e i miti sono sempre stati accettati così come sono.  Oggi, con i progressi inimmaginabili ottenuti dalle tecnologie, in campo radio-televisivo, fa quasi tenerezza ricordare la felice ed ingenua epoca delle radiocronache di Nicolò Carosio, quando trepidanti ed affamati di calcio ci preparavamo a vivere in diretta via etere una partita di football, catturati dalle pittoresche e romantiche uscite del famoso radiocronista, dai  suoi toni sorridenti e umani .
   Ma che c’entrano le radiocronache del grande speaker siciliano in questo angolo dedicato al Napoli, direte voi? C’entrano, perché vogliamo qui ricordare che Napoli fu un’antesignana anche nella comunicazione delle cronache calcistiche.
   La prima iniziativa che si ricordi fu presa a Napoli. L’idea venne al “Mezzogiorno Sportivo”. Giornale napoletano. I balconi della redazione si affacciavano su Piazza Trieste e Trento, là dove ha inizio Via Roma. Era il 23 giugno del 1929, si giocava a Milano lo spareggio per l’ammissione al campionato unico di Serie A tra Lazio e Napoli. Da Milano telefonava in redazione il “testimone oculare” e a Napoli riceveva i dispacci Michele Buonanno, già segretario del Napoli, nonché avvocato, giornalista (come il fratello Ciro) e stenografo. Michele Buonanno stenografava, traduceva e inviava – tramite un usciere – la cronaca al giornalista Felice Scandone che, unico referente per tantissima gente, dal balcone situato proprio sul banco dell'acquafrescaio (tuttora esistente, unico sito di Piazza Trieste e Trento che - insieme con la Chiesa S. Ferdinando -  col tempo non ha cambiato destinazione) informava il popolo azzurro in attesa. Annunciò il vantaggio laziale con il centravanti Spivach, quindi la folla esplose per il pareggio di Innocenti II ed il vantaggio di Sallustro, per poi restare gelata dal pareggio di Cevenini V. Grazie all’interessamento dell.on. Arpinati, Napoli e Lazio evitarono un secondo spareggio e furono ammessi entrambi alla Serie A.
    Secondo esperimento napoletano, stavolta il 14 febbraio del 1932 per festeggiare la presenza di ben tre azzurri nella Nazionale, Sallustro, Vojak e Colombari, contro la Svizzera. Cronaca (quasi) diretta ai tifosi partenopei, nonostante la partita si giocasse proprio nell’Ascarelli, insufficiente a contenere tutti  coloro che avrebbero voluto partecipare direttamente all'evento . Tre a zero, tripletta di Fedullo, radiocronista napoletano tale Rondino....
    I giovani d’oggi non sanno ovviamente che anche a Napoli fu sperimentata la prima trasmissione di “Tutto il calcio minuto per minuto”, sia pure in maniera, diciamo così, artigianale, e per tutta la durata della partita non solo per i secondi tempi come dagli Anni Sessanta avveniva con la Rai. Sì, Napoli all’avanguardia anche in questo, per poi finire come sempre in coda… L’idea venne al famoso giornalista napoletano Gino Palumbo, allora responsabile dei Servizi Sportivi de “Il Mattino”, che in una domenica di fine  Anni Cinquanta organizzò una serie di collegamenti con alcuni campi di Serie A dove era in gioco la salvezza del Napoli. Gino Palumbo inviò alcuni colleghi sui campi interessati per seguire da vicino e raccontare simultaneamente ai tifosi azzurri fin dal primo minuto le fasi delle partite che dovevano determinare la retrocessione e la salvezza in Serie A. Una folla immensa di sostenitori in ansia riempì la Galleria Umberto, dove si affacciavano i balconi del “Il Mattino”, mentre con sapiente regia, e con la voce stentorea e professionale di uno speaker ingaggiato, in prestito, presso la sede napoletana della Rai, venivano lette, tramite altoparlante, le cronache che via, via giungevano dalle sedi dei quattro campi, attraversi telefoni di fortuna cercati e trovati in ambienti con “vista sul campo”. Altro che i telefonini di oggi!...Seguiva la classifica aggiornata di volta in volta, in tempo reale. L’esperimento fu felicissimo.
   Nostalgia per quei tempi, quando bastava poco per “creare l’atmosfera”? Oggi la televisione dà tanto di più , cominciando dalle immagini. Ma allora lavorava la fantasia ed è sulle ali della fantasia che si fanno i voli pindarici, così frequenti nel calcio. In cambio oggi sovrabbondano le chiacchiere...

Nelle foto: in alto, la famosa trasmissione effettuata dal "Mezzogiorno Sportivo" nel 1929 per i tifosi del Napoli; al centro, il mitico radiocronista Nicolò Carosio,  trent'anni di inimitabile carriera.


     All'Ascarelli nel '31 la Polizia cercava il tifoso senza scarpe


    T
ra le partite che hanno fatto “grande” la storia del Napoli, oltre alle sfide con la Juve, figurano anche gli scontri con l’Inter, memorabili anche quelli che videro tra i protagonisti in campo avverso Sallustro e Meazza, superbi rivali anche in Nazionale negli Anni Trenta. Ci piace qui riproporre il ricordo che fece il compianto Crescenzo Chiummariello, giornalista sportivo e già Presidente dell’Associazione Italiana Napoli Club, nella sua “Storia del Napoli dal Mandracchio al San Paolo” di una famosa Napoli-Inter del 24 maggio 1931.


  
“Partita molto sentita, tifo infernale per Sallustro. Quando la palla era in possesso di un azzurro, visto che l’emblema del Napoli era il “ciuccio”, i tifosi in coro scandivano un particolare incitamento, come l’ordine che si dà all’asino quando lo si vuol far camminare e cioè un fragoroso “Ah,ah,ah” prolungato ed assordante. Se, di contro, la palla passava agli avversari subito veniva scandito il contrordine cioè il famoso e rituale “Ih,ih,ih”: una caratteristica di tifo, verace e fantasioso che da anni i sostenitori del Napoli hanno abbandonato a torto (molto a torto) e che farebbero bene a rispolverare.
   Alla fine del primo tempo un terrificante boato scosse le fondamenta dell’Ascarelli. Sallustro aveva segnato; applausi scroscianti al grande Attila, ancora a confronto diretto col grande Meazza. Primo tempo sull’1-0 che lasciava ben sperare, ma Meazza, giocatore ricco di orgoglio e di classe, meditava la vendetta: ricevuta la palla a centro campo dribblò tre azzurri e, invitato all’uscita Cavanna, lo evitò con una finta ed entrò in rete, palla al piede. Strano a dirsi non si sfogò con particolari segni di gioia per la rete segnata, anzi si avviò lentamente sotto la tribuna e volse il suo sguardo fiero ma composto verso i suoi denigratori. Meazza era un campione anche in questo!
   Questo suo atteggiamento serio, invece di richiamare l’applauso, destò una rabbia repressa tra i tifosi azzurri i quali non perdonavano (e non potevano farlo) a Meazza di aver mostrato la sua immensa classe proprio di fronte all’idolo Sallustro. Il Napoli ripartì rabbiosamente all’attacco per agguantare quella vittoria che, anche per il volume e la bontà di gioco messi in mostra, meritava ampiamente. Ma tra lo stupore
generale, l’ala milanese Visentin (che dopo due stagioni sarebbe poi passato nelle fila del Napoli) portò in vantaggio l’Ambrosiana. Visentin non appena vide entrare il suo tiro in rete fece un salto di gioia, come fanno ancora oggi tutti gli attaccanti del mondo e sollevando un pugno al cielo, diede l’impressione di aver fatto un gesto prettamente italico nei confronti del pubblico (anche se alcune testimonianze esclusero la volontarietà d’un gesto volgare).
Fu questa probabile errata interpretazione del gesto, oppure l’ombra della sconfitta che si profilava sugli azzurri, che generò una vivace contestazione contro l’Ambrosiana e contro l’arbitro, il bolognese Scorzoni, accusato di non aver espulso il reo. La partita fu sospesa per alcuni minuti per sedare la tumultuosa protesta. A pochi munti dalla fine l’ala sinistra Tansini riequilibrò il risultato su calcio di rigore (concesso per placare la folla) ma dopo il pareggio l’arbitro subì un nutrito lancio di oggetti vari; i “tiratori” per la verità, si dimostrarono abbastanza maldestri, salvo uno (al secolo Domenico Fenuta) che con due perfetti lanci, degni di un cannoniere scelto, colpì Scorzoni in pieno petto. Le “armi” adoperate erano entrambe le scarpe dell’esagitato Mimì.
   La Polizia decisa ad arrestare il colpevole, bloccò tutte le porte di uscita, controllando gli spettatori, uno per uno, in attesa di scovare chi fosse a piedi nudi. Una volta resosi conto che per il vasto schieramento di Polizia, difficilmente l’avrebbe fatta franca, Domenico Fenuta cominciò a preoccuparsi seriamente della sua sorte. Allora cosa fece? A due suoi amici (così ha raccontato lui dopo, n.d.r.) diede incarico di andare a casa (vicino allo stadio n.d.r.) a prendergli un paio di scarpe. Ma restava il problema di come farle entrare nello stadio, sempre guardato a vista dalla Polizia. Presto fatto! Uno dei due compari si portò sul lato del settore “distinti”, dove erano collocate le aste delle bandiere. Don Mimì con la naturalezza di un grande attore diede inizio all’ammaina-bandiera, servendosi di uno dei capi della corda per farla arrivare all’amico in attesa con le scarpe, tirarle su, infilarle poi ai piedi ed avviarsi all’uscita. Fu un trauma per l’infuriato Fenuta il constatare che da casa gli avevano mandato le scarpe di un familiare, disgraziatamente di numero inferiore al suo.
   Come Dio volle, don Mimì riuscì a calzare le scarpe e comunque mai scarpe strette furono tanto benedette. Si avviò con passo lento e misurato verso l’uscita, dove vi era ancora una lunga coda di persone in attesa del controllo degli agenti e con una faccia tosta incredibile e con l’andatura alquanto claudicante si avvicinò alla porta e disse: “ Brigadiè, faciteme ‘o piacere e mme rà ‘a precedenza: num me facite aspettà tutta chesta fila, Ie tengo certi calle che so’ gruosse comme ‘e cipolle e me fanno male assai”. Il brigadiere convinto dal volto sofferente di don Mimì, lo lasciò passare. Ma appena varcata l’uscita, il nostro protagonista diede inizio ad una gara di velocità vera e propria. La gioia di averla scampata non gli fece sentire le dolorose fitte che le scarpe strette gli arrecavano. E ben lontano dallo stadio liberò le estremità e ritornò a casa a piedi nudi”, mentre la Polizia e l’arbitro Scorzoni erano ancora in attesa di scoprire il provetto lanciatore di scarpe…
    Per la cronaca la gara ritenuta virtualmente sospesa sull’1-2, al momento delle turbolenze in campo, prima del rigore assegnato per “ammorbidire” l’ambiente, fu data vinta all’Ambrosiana per 2-0 e il campo dell’Ascarelli fu squalificato per una giornata.

Nelle foto, due stili diversi; in alto, il tocco magico di Peppino Meazza in gol; al centro un gol di potenza di Attila Sallustro; in basso, il famoso trio difensivo del Napoli Anni Trenta di mister Garbutt: Vincenzi, Cavanna e Innocenti.
 

         Il gadget più singolare , col decalogo per i tifosi

   

    Un ventaglio in cartone distribuito dal Napoli ai suoi abbonati negli Anni Trenta. In questo che vi presentiamo figura la foto del terzino Innocenti, mentre sul retro c'è un vero decalogo per il tifoso perfetto. Ecco i dieci "comandamenti" del Napoli:1) Fatti socio del Napoli; farai parte di una famiglia che combatte all'ombra di un gagliardetto glorioso ed onorato. 2) Ama la tua società: essa è la tua seconda famiglia, sorreggila col tuo appoggio e difendila sempre ed ovunque. 3) Sii benigno propagandista della tua società; gli acquisti, i miglioramenti tecnici sono realizzabili solo quando la Società dispone di mezzi finanziari forti, dovuti al maggior numero di soci .4) Rispetti ed abbi fede nel dirigente, la cui opera diuturna e tacita non è mai apprezzata dai critici a buon mercato. Aiutalo perciò anche con fiducioso silenzio. 5) Ama i giuocatori, non avere antipatie per alcuni, ne' eccessive simpatie per altri. Lottano tutti per lo stesso ideale, sostienili ancora di più quando la sfortuna lo sferza. 6) Sorreggi nella dura fatica il trainer che è il cireneo della situazione. Non criticarlo. 101 volte su 100 è una persona che di calcio ne sa più di te. 7) Non chiedere tessere o entrate di favore, sono cose che sentono di elemosina e degradano chi le chiede. 8) Non criticare per partito preso. Da vero sportivo, ama lo sport per lo sport, eludendo personalismi o beghe. Ricorda che lo sport è sinonimo di lealtà e senso cavalleresco. 9) Rispetta gli arbitri  e le squadre  avversarie, solo così potrai giustamente esigere che il Napoli sia rispettato. 10) Napoli ha tradizioni nobilissime di ospitalità e cortesia. Ricordalo sempre, specie sul campo di giuoco.