Come nacque
il grido
dei tifosi
di Felice Scandone
Nella foto, uno
striscione all' Ascarelli prima di una gara contro il
Toro; al centro il ciuccio di Fichella visto da F.Del Vaglio
Apparve in carne e ossa per la prima volta in
pubblico il 23 febbraio 1930 in occasione della vera inaugurazione
dell’Ascarelli, una famosa Napoli- Juve finita 2-2 con una
travolgente rimonta del Napoli in svantaggio di due reti e poi
imbattuto, grazie a due reti Buscaglia. Fu in quell’occasione
storica che, tra gli applausi dei tifosi, spuntò sul terreno un
piccolo ciuco infiocchettato d’azzurro che fece il giro del campo,
preceduto e seguito da cartelli con la scritta “Ciuccio, fa tu!”. L’asinello,
però, era entrato nella storia del Napoli già da qualche anno,
quando la squadra stentava a decollare tra le “grandi” nella
Divisione Nazionale. Figuratevi che nella prima stagione di vita,
nel 1926-27, il Napoli terminò ultimo con un solo punto, conquistato
contro il Brescia in casa (0-0), in 18 partite con ben 61 gol
incassati. Ma gli evitarono la retrocessione. Fu quell’anno che un
settimanale satirico partenopeo, il “Vaco ‘e pressa” ,di fronte a
una squadra che - pur avendo l’emblema cittadino del cavallo
rampante -
cadeva molto spesso ed appena sembrava rialzarsi si abbatteva di
nuovo a terra, paragonò in una vignetta il Napoli al “ciuccio di Fichella”con
“trentaseie chiaje (piaghe) e ‘a coda fraceta”,
espressione che fu subito raccolta dai tifosi del Bar Brasiliano e
si divulgò in un lampo nella città.
Una sera, si commentava nella redazione del giornale
satirico la batosta subita ancora una volta, poche ore prima, dagli
azzurri, tra vivaci discussioni e previsioni catastrofiche, quando
un vecchio tifoso, Raffaele Riano, che fumava in un angolo ed
ascoltava le geremiadi sulla squadra del cuore, ruppe ad un tratto
il silenzio. E se ne uscì con una frase tipicamente partenopea, che
è rimasta per decenni come una specie di lacera e gloriosa bandiera
del Napoli. “Me pare - sospirò don Raffaele - ’o ciuccio ’e Fechella:
trentasei chiaje e ’a coda fraceta!' ».
Da qui l'idea del settimanale "Vaco 'e pressa" di
preparare una vignetta ad hoc.
Ma per qualche particolare in più, affidiamoci al racconto che nel
1933 sul famoso “Calcio Illustrato” fece Felice Scandone,
indimenticato e brillante giornalista napoletano, fondatore e
direttore del “Mezzogiorno Sportivo”, caduto in guerra su un aereo:
“
Il ciuccio, come sapete, è l’emblema del Napoli e poche volte
nella storia della zoologia il testardo e umile animale ha fatto
tanto parlare di sé, come adesso. Gli è che da alcuni anni, ad opera
di un popolare giornale umoristico locale il “ciuccio” imperversa.
Una volta era moribondo e Garbutt fungeva da medico salvatore;
un’altra volta si rialzava su due zampe, come un nobile corsiero
arabo o un rampante leone e poneva in fuga animali di sangue
infinitamente più azzurro. Erano, insomma, le alterne vicende del
Napoli che, dai primi anni disastrosi, era assurto gradatamente a
stella di prima grandezza del firmamento calcistico nazionale.
Perché il bizzarro umore partenopeo abbia scelto proprio il
“ciuccio” per distinguere una grande società di calcio è una storia
un po’ lunga. Cerchiamo di abbreviarla il più possibile.
Nella notte dei tempi, nella vecchissima Napoli non so più di
quale dominazione, un contadino, Fichella, curava un vecchio asino,
tanto carico di acciacchi da essere ricoperto da tante piaghe. Inoltre,
anche la coda del disgraziato ronzinante era in pessime condizioni,
cioè, a dirla alla napoletana, era fraceta
Il Napoli al primo anno di Divisione Nazionale era il povero
vaso di terracotta tra vasi di ferro. In un intero campionato non
racimolò che un misero punto perché non riusciva nemmeno a
trasformare in goals i calci di rigore… Era, insomma, come il famoso
asino del povero Fichella, del quale si racconta che vegliasse la
notte (Fichella, non l’asino, intendiamoci bene!) per cogliere i
fichi del suo vasto orto per caricare il carretto che doveva
trasportare le ceste al mercato, Ma l’asino percorreva appena poche
centinaia di metri, poi si abbatteva al suolo e non c’era verso di
farlo rialzare.
Il Napoli dei primi anni era proprio come quest’asino. Anche
quando riusciva qualche volta a prendere il trotto (vale a dire
quando otteneva qualche sporadica vittoria) era per…pochissimo
tempo. La classica corsa dell’asino, insomma.
Come e perché il “ciuccio” si sia trasformato in un bizzarro
cavallino che quest’anno corre e corre (e come!) è ormai storia che
tutti conoscono. Ma in quel di Napoli (e soprattutto in quelle tre
confraternite di arcitifosi che sono la Torrefazione Azzurra, il Bar
Brasiliano e la Birreria Amoroso) non vogliono sentirne di
rinunziare al “ciuccio”. Forse perché si è, in fondo, sempre un po’
scettici, conoscendo la…natura del poco nobile animale (chi nasce
asino non può morire cavallo…) forse perché si sono affezionati
all’orecchiuto, forse anche perchè il “ciuccio” è più intonato alla
rumorosa, schietta e caratteristica allegria napoletana.”
Felice Scandone
Elogio
del ciuccio, paziente e testardo
di Bruno Roghi
La
figura del “ciuccio” come simbolo del Napoli fu nobilitato da quel
grande, fantasioso e compianto giornalista che fu Bruno Roghi, in
occasione del ritorno in Serie A del Napoli nel giugno del 1960. Nel
raccontare ai suoi lettori il successo della squadra di Eraldo
Monzeglio nella partita conclusiva e vittoriosa contro il Catania a
Napoli, il direttore del Corriere dello Sport, dopo aver
sottolineato l’epilogo di “un dramma d’amore” tra la folla
partenopea e la squadra, "tra scintillanti lacrime di gioia", fece
anche l’elogio del “ciuccio”, un vero e insolito peana, alla maniera
immaginifica proprio di un grande scrittore-poeta quale fu Bruno
Roghi, con la sua prosa dannunziana infarcita di riferimenti colti e classici.
Ecco un piacevole e singolare stralcio dal suo articolo apparso in
prima pagina del “Corriere dello Sport ”:
“ Se ora me lo permettete, amici napoletani,
dirò che nessun palafreno, se non il somaro poteva rappresentare la
cavalcatura
degna della bella, non più addormentata, nel bosco
della B, ma risvegliata nel paradiso della A.
Non mi soffermerò a citare da una statistica vecchiotta capitatami
sott’occhi in questi giorni che gli asini in Italia ascendono ad un
milione circa, il che farebbe un asino per ogni 45 abitanti,
percentuale che molti di voi sarebbero anche maliziosamente capaci
di considerare ottimistica. Mi limiterò ad asserire , a tutto onore
dell’icastica napoletana, che la prima ed unica volta in cui Omero
chiama in scena un asino a titolo di similitudine, l’eroe di
paragone è il guerriero più forte dell’esercito greco, quell’Ajace
Telamonio che aveva i bicipiti possenti e schiacciava le teste dei
tori come fossero noccioline americane.
Era mai concepibile la consacrazione del Napoli a nuovo astro della
costellazione calcistica italiana se non con l’intervento del somaro
fatidico? Era mai possibile che lo squillo trionfale annunciante
l’ingresso del Napoli nella Divisione A fosse chiesto al metallo di
una tromba comune, quella tromba che non s’espande oltre i limiti di
un teatro o di una piazza e non piuttosto alla sgangherata bocca di
un asino solenne il cui raglio potrà non arrivare in cielo, ma ha la
virtù,tra l’altro, di consacrare all’amore la primavera quando s’ode
echeggiare da un campo all’altro, da un podere all’altro, da una
contrada all’altra in una giostra gioviale di richiami sonori?
Il
somaro entrò: patuit scriverebbe Virgilio le cui ossa sono qui
sepolte. Il somaro “apparve”, agghindato come uno sposo novello, un
somaro educato e tuttavia pomicione, un somaro in carne e ossa, e
tuttavia somaro allegorico e, per così dire, astratto. Un
somaro-sommario, un somaro-indice, un somaro da libro-di-scuola.
Il somaro, infine, FA TU!.
Il somaro è
paziente: con pazienza Napoli ha aspettato il grande giorno. Il
somaro è forte: caricate pure il popolo napoletano di tutte le pene
e di tutte le miserie del mondo, lui le regge e tira avanti, e
magari le canta, per indifferenza o per disperazione non so, ma le
canta.
Il somaro è
testardo: dite pure al popolo sportivo napoletano che il nuovo
stadio è un affare complicatissimo e problematico, e lui scuote la
testa bigia e dice che lo stadio si farà. Il somaro è filosofo: da
mille anni gli si va raccontando, con tutte le bocche oratorie di
dieci legislature parlamentari che la “questione meridionale” sarà
risolta e lui continua ad aspettare e a non crederci. Il somaro è
arguto: tutte le burle e tutte le astuzie – alle quali, per quanto
a volte insolenti e perfide, non è mai estranea una goccia
iridescente di genialità –hanno a Napoli il copyright. Il somaro è
recalcitrante: ripetete pure al Napoli che la sua discesa in B, due
anni fa, è stata regolare e lui con una mossa beffarda e quattro
virtuosismi mimici delle dita davanti al viso ti dimostrerà che
sotto il Vesuvio poverine sono nati in tanti, ma “fessi” ancora
nessuno, che si sappia.
Siano dunque
fatti tacere tutti coloro che, a titolo di onore per lo splendido
torneo disputato dal Napoli, lo vorrebbero veder nel
parterre del
étoiles del calcio nazionale in una berlina
di gala, tempestata di pietre preziose trainata addirittura da
Bayard, il “cavallo terrone” senza macchia e senza paura. Niente
cavallo. Il Napoli nello spirito giocondo e sfottente del suo popolo
inimitabile esige il prediletto somarello. Ci sta su dritto e altero
come la statua di Bartolomeo Colleoni nel monumento equestre del
Verrocchio: quel capitano di ventura dai tre segni di virilità,
quello scultore che costruì persino una palla di rame gigantesca da
porre sulla cupola del Duomo fiorentino, la palla che solo un
fulmine potè abbattere, (il medesimo fulmine che, scoccato dalla
Lega Nazionale tre secoli dopo, potè squarciare la palla sventurata
della squadra napoletana e precipitarla nel purgatorio della B per
fare ammenda di peccati probabilmente non commessi e comunque
spavaldamente riscattati) . Dopo qualche
perplessità e qualche sbandamento i dirigenti del Napoli, sospinti
dalla passione e dalla fiducia del popolo sportivo, andarono a
raccogliere la palla sventurata nel purgatorio della B”.
Bruno Roghi
Nella
foto in alto, un capo-tifoso azzurro guida il ciuccio in un giro di
campo nello Stadio San Paolo negli Anni Sessanta; al centro un
ciuccio insolito, vestito in frac durante il periodo d'oro degli
azzurri di mister Garbutt negli Anni Trenta; a sinistra il ciuccio e
il Comandante Achille Lauro in cartapesta durante la tradizionale sfilata dei
carri nella Piedigrotta napoletana del 1957.
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