Il poker azzurro che ha fatto vincere di più

Con Ascarelli una nuova dimensione

   Giorgio Ascarelli, trentenne, fu nel 1926 il primo presidente del Napoli, di un Napoli subito inserito tra le grandi, dopo una fase grigia, il Napoli di Garbutt, di Cavanna, di Vojak, di Sallustro, di Mihalic. Di origine ebrea, il munifico industriale tessile lanciò il Napoli in una nuova dimensione, all’altezza delle società del Nord, alle quali contese anche lo scudetto. Poi volle regalare a Napoli il suo primo vero stadio al Rione Luzzatti, inizialmente 10 mila posti con tribune in legno, costruito con i suoi soli soldi, su un terreno acquitrinoso. Ascarelli morì il 12 marzo del 1930 per peritonite perforante, appena un mese dopo l’inaugurazione del suo stadio che da “Vesuvio” fu chiamato per poco tempo “Ascarelli” e poi, per volere del Fascismo, nel 1934, Stadio Partenopeo (portato a 40 mila posti), semplicemente perché l’alleato Hitler aveva vinto le elezioni, ormai era lanciatissimo verso i pieni poteri, e Mussolini si volle accodare all’ostracismo agli ebrei, colpendo anche la famiglia Ascarelli.

Lauro intramontabile anche nel Napoli

   Il Comandante Achille Lauro fu uno dei presidenti che ressero più a lungo la scena del calcio a Napoli. Arrivò alla ribalta nel 1936, su invito del Fascismo, e fece il bello e il cattivo tempo fino al 1969, quando piombò in una società dalle sorti alterne, il ciclone Ferlaino. Durante il lungo ciclo di Lauro, il Napoli divenne praticamente parte del suo impero, la Flotta, e finì per essere utilizzato persino per fini elettorali quando Lauro decise di impegnarsi in politica. Di indole sparagnina più che spendaccione, Lauro entrò ed uscì dal Napoli più volte, restando però sempre nella sua orbita, sia come presidente onorario o importante creditore. Ben altro avrebbe potuto ottenere con la sua bravura, ma raccolse in definitiva meno del previsto, tanto in politica che nel calcio, tra polemiche, litigi e continue pretese di crediti... pregressi che la Società fu costretta a sopportare a lungo. 

Grazie a  Fiore cominciò la svolta

   Roberto Fiore aveva appena 40 anni quando, nel 1964, con la benedizione di Achille Lauro, assunse la presidenza del Napoli in un periodo molto incerto della società (tenuta fino ad allora a galla dalla generosità di Alfonso Cuomo e dall’abilità di un geniale Gigino Scuotto). Tra l’altro, il Napoli da due stagioni era in B, ma quando arrivò Fiore ci fu una vera svolta. Fu costituita una Società per Azioni, vennero annullate molte pendenze (tranne quelle di Lauro…), arrivarono un po’ di pace, e l’allenatore Pesaola. Ma soprattutto fu riconquistata la Serie A. Poi a prezzi di favore vennero ingaggiati due grandi protagonisti del calcio a Napoli: Sivori e Altafini, accolti da maree di tifosi. Il Napoli fu magnifico terzo. Ma dopo tre anni, Lauro fece in modo che al posto di Fiore arrivasse il figlio Gioacchino, un vero dirigente dilettante, che combinò tanti guai, prima di morire prematuramente di tumore.

Ferlaino, 33 anni di croci e delizie

   Anche Corrado Ferlaino, come Roberto Fiore, piombò sul Napoli con la benevolenza di Lauro, ma anche con una rocambolesca operazione per strappare le azioni agli altri pretendenti. Presidente nel 1969, il trentasettenne, furbo ingegnere tenne i fili della società per oltre un trentennio, tra varie crisi economiche e geniali colpi di mercato con cifre record: Savoldi, Paolo Rossi (che però rifiutò il trasferimento), fino a Maradona (preso con uno stratagemma) inserito in una squadra che conquistò – per la prima volta nella storia azzurra– lo scudetto e poi lo bissò. Molti i piazzamenti di prestigio, tra cui la Coppa Uefa e altre Coppe. Mai il Napoli è stato tanto in auge come sotto la sua presidenza. Purtroppo dopo tanta gloria e successi, Ferlaino legò il suo nome anche al triste e continuo decadimento del Napoli. Assillato dai debiti suoi e della società, aprì le braccia a Corbelli, preludio al fallimento di Totò Naldi. Molti lo considerano il più grande tra i presidenti azzurri.
 

 

I presidenti del Calcio Napoli

1926-27: viene fondata l’Associazione Calcio Napoli. Giorgio Ascarelli primo presidente, poi una commissione formata dai signori Coppola, Elia, Picchetti, Reale e Zingaro. In seguito il presidente fu Nicola Sansanelli.

 1927-28: Maggiore Gustavo Zingaro, poi il cav. Emilio Reale

 1928-29: On. Giovanni Maresca di Serracapriola, duca della Salandra, poi ritornò Giorgio Ascarelli

 1929-30: Giorgio Ascarelli

 1930-31: On. Giovanni Maresca di Serracapriola

 1931-32: On. Giovanni Maresca di Serracapriola, poi il comm. Eugenio Coppola

 1932 fino al 1936: Ing. Vincenzo Savarese

 1936 fino al 1940: Com.te Achille Lauro. Dal 15-6-1940 l’Ing. Gaetano Del Pezzo

 1940-41: Avv. Tommaso Leonetti

 1941-42: Gr. Uff. Luigi Piscitelli

 1942-43: comm. Annibale Fienga

 1944: dopo l’interruzione per il conflitto mondiale, nel 1944 vengono costituiti  a Napoli due Club: la Società Sportiva Calcio Napoli e la Polisportiva Napoli. Nel 1945 i due Club si fondono con la denominazione Associazione Polisportiva Napoli. Nel febbraio 1947 ritorna l’Associazione Calcio Napoli.

 1946-47 fino al 1948: Pasquale Russo, poi Giuseppe Muscariello

 1948-49 fino 1950-51: Egidio Musollino

 1951-52: Rag. Alfonso Cuomo

 1952-53 e 1953-54: Com. Achille Lauro

 1954-55 fino al 1962-63: Rag. Alfonso Cuomo (con presidente Onorario Achille Lauro)

 1963-64: reggente dr. Luigi Scuotto

 1964-65 fino al 1966-67: Roberto Fiore. Il 25 giugno 1964 l’Associazione Calcio Napoli si trasforma in Società Sportiva Calcio Napoli. Presidente Onorario Achille Lauro.

 1967-68: On. Gioacchino Lauro

 1968-69: Comm. Antonio Corcione

 1969-70 fino al 2000: Ing. Corrado Ferlaino,  con tre parentesi: nel 1971-72 Ferlaino lascia la presidenza a Ettore Sacchi, nel 1982-83  la conduzione della società passa  all’ing. Marino Brancaccio, nel 1995 il pacchetto azionario è controllato da  Ellenio Gallo; nel 1995-96 torna Ferlaino che però preferisce avere la carica di azionista di riferimento con maggioranza assoluta. Nel 1996 Vincenzo Schiano di Colella diventa presidente onorario; nel 1997-98 Gianmarco Innocenti è nominato Amministratore Unico e nel 1999-2000 passa la carica a Federico Scalingi. Nell’aprile del 2000 Ferlaino vende il 50% della società a Giorgio Corbelli.

 2001-2002: Giorgio Corbelli, con Corrado Ferlaino Amministratore Delegato.

 2002-2003 e 2003-2004: Salvatore Naldi.

 2004-2005: Aurelio De Laurentiis acquista il Napoli dopo il fallimento della società guidata da Totò Naldi, ma è costretto a ricominciare dalla Serie C, con la denominazione Napoli Soccer. Nel 2006 torna la denominazione Società Sportiva Calcio Napoli, sostituita dopo il fallimento azzurro.
 

 Con Ascarelli il Napoli dall'età del bronzo al Rinascimento
      
                                di Giuseppe Pacileo


   
Dal lontano passato del calcio  napoletano emerge una figura che ogni appassionato della maglia azzurra deve considerare indimenticabile: Giorgio Ascarelli. Egli non può essere altrimenti definito che un mito. Infatti, sa di mito, quel nome, molto più che non altri ancora più lontani nel tempo – i Potts, i Salsi eccetera – per la dimensione e la compiutezza realizzata a pro del calcio napoletano in periodi di stupefacente brevità; per le intuizioni sue, come dire? leonardesche; per quell’essere sorto e tramontato, come dirigente ma pure in panni d’industriale, nell’arco di un quinquennio (tramontato, tra l’altro, prematuramente eppure già al vertice dell’intensa ed eccezionale attività – e i primi paragoni che mi saltano in mente arrivano da tutt’altro campo. Dico Mozart e dico Schubert, come prima accennavo a Leonardo, senza il pudore del “si licet parvis componere magna” perché ciascuno nel suo campo – angusto oppur sconfinato che sia – può essere piccino oppure immenso) Mitico, infine, l’Ascarelli, per quella sorta d’aureola del martirio che gli regalarono, sebbene postuma, l’anormalità idiota delle leggi razziali e la normalità ignobile dell’umana ingratitudine.
    Quale il debito del calcio napoletano verso Ascarelli? Più presto detto che fatto:
a) il rilancio regionale durante la gestione dell’Internaples ultima versione ;
b) la fondazione della prima A.C. Napoli;
c) il lancio sulla ribalta nazionale della prima squadra recante il nome della sua città, con  un quinto posto,  dopo anni di mortificazioni (quinto posto che grazie anche alla sua opera diventò terzo e poi quarto posto dopo la sua morte ) ;
d) i primi due veri e moderni allenatori, Carcano & Garbutt;
e) il ricorso, indispensabile, a calciatori professionisti di fatto da affiancare alle pochissime autentiche forze indigene (o quasi);
f) la concezione stessa del club calcistico in forma e organizzazione d’Azienda, con tanto di bilancio e con tanto di stadio proprio (il primo e l’ultimo che il Napoli abbia posseduto).
    Forse mi sono scordato di qualcosa, però ho la vaga sensazione che di più non si potesse pretendere, soprattutto in considerazione delle circostanze ambientali ed epocali.
    Fu come passare per magico tocco di bacchetta dall’età del bronzo al Rinascimento. Con l’Achille Lauro prima edizione si sarebbe ripiombati nel Medioevo, con quello della seconda si sarebbe saltati al più dispotico dei governi borbonici. Roberto Fiore avrebbe inaugurato l’era moderna. Corrado Ferlaino, dopo un folle decennio di tipo edoardiano tra miserie e fulgori, è approdato al computer. Il personaggio magari antipatico a molti è comunque il primo presidente col quale il Napoli è arrivato allo scudetto e alla Coppa Uefa, e i fatti sono fatti.   Quattro, insomma, le presidenze significative, quattro nomi da incidere sulla pietra. Giorgio Ascarelli, però, fu la stele di Rosetta (che non è una mia cugina, come qualche lettore potrebbe supporre, bensì la cittaduzza egiziana – in arabo Rascidt – ove le truppe napoleoniche rinvennero nel 1799 una lastra di pietra recante la “chiave” per interpretare i geroglifici).
    Certo, il Nord vantava pure nel calcio i vantaggi d’una partenza avvenuta molto prima e molto meglio; tuttavia, fu altamente significativo che, nel ristretto gruppo più o meno concorrente della Juve dai cinque scudetti, si trovasse anche il Napoli, quello immatricolato e targato da Ascarelli pur se  guidarlo toccò a Willy Garbutt e all’ing. Vincenzo Savarese; costui non indegno successore, laddove nella pletora de’ predecessori – dilettanti inetti e talvolta gonfi di boria – mi sento di salvare il solo Emilio Reale.
   Di cospicua famiglia ebrea, Giorgio Ascarelli nacque il 18 maggio 1894 al Pendino, quartiere popolare e centralissimo di Napoli; era dunque “verace”. Rotondetto e di belle fattezze, la fronte resa ancora più ampia da precoce calvizie, era ricco di quattrini che amministrò con la parsimonia dell’avaro intelligente – di quelli che, se lo ritengono funzionale o gratificante, sono pronti a spendere anche grosse somme – ed era ricco di quella sensibile, “artistica” intelligenza che non di rado esalta la sua razza fino a regalare all’Umanità un Einstein, un Ojstrakh, un Kafka; piaccia oppur no all’arianesimo degli Alfred Rosenberg e conseguenti Adolfi carnefici.
   Dunque, mecenate anche dell’arti e studioso di pittura; nel suo stile schivo, a suo modo anche uomo di mondo. Fu tra i fondatori del Circolo Canottieri Italia. Industriale del tessuto, con un fatturato considerevole, la sua Manifattura di Villadosia allungava propaggini fino in Lombardia, a Busto Arsizio.
   Volle che lo stadio da lui costruito al Rione Luzzatti prendesse il nome di “Vesuvio”. Lo inaugurarono il 23 di febbraio 1930 ed egli non s’intruppò tra le “autorità”; preferì mescolarsi alla folla e invano lo cercarono. Tra la folla assistè al pareggio tra Napoli e Juve, soffrì ai gol di Munerati e d’Orsi, esultò alla doppietta riparatrice di Buscaglia. Diciassette (!) giorni e sarebbe morto, all’alba, di peritonite perforante nella sua residenza in Villa Bice, al civico 169 di Via Posillipo. Evento così repentino, inatteso, che Napoli mistica e insieme superstiziosa  lo considerò come “assunto in cielo”.
   Il 13 di marzo, giorno dei funerali successivo alla scomparsa, la folla sul percorso (Via Caracciolo, Piazza Vittoria, San Ferdinando, Corso Umberto fino al cimitero ebraico) era talmente fitta che “in più punti venne sospeso il traffico” de’ vicoli, narrano le cronache dell’epoca. E della domenica successiva registrano che a Milano, dove gli azzurri pareggiarono due a due con i rossoneri rimontando con Vojak un doppio svantaggio, al 5’ l’arbitro Ciamberlini fermò il giuoco. “Giocatori e pubblico scattano in piedi e rimangono per un minuto in silenzio rendendo omaggio alla memoria di Giorgio Ascarelli”. Si consideri che la squadra, già in ritiro al nord in quel di Arona, si era sobbarcata al faticoso viaggio di andata e ritorno in ferrovia (seconda classe!) per partecipare ai funerali e quindi ritornare a Milano, arrivo alle 11 della domenica mattina.
   Chissà perché dopo e non prima della partita, “ ai giuocatori è stato comunicato un telegramma di ringraziamento della signora Ascarelli, commossa dell’omaggio reso dai giuocatori al compianto consorte ed un altro della società esortante i giuocatori ad onorare degnamente sul campo la memoria dell’indimenticabile ed amato presidente”.
    La prosa dell’epoca di già radeva al suolo la regola dell’accento tonico: i giuocatori però non avevano avuto bisogno di esortazioni per onorare sul campo – col giuoco e non col gioco – l’amato presidente. Quanto all’indimenticabilità, sarebbe interessante che qualche Sindaco e qualche dirigente dell’epoca spiegasse come mai nel dopoguerra lo stadio del Vomero venne intitolato a una disonorevole “liberazione” e perché tanti anni dopo si preferì per il nuovo stadio di Fuorigrotta il nome di San Paolo. Non risulta che l’Apostolo abbia mai accennato al giuoco del calcio nelle sue “lettere” ai Corinzi o ad altri…
   Ancora ancora era stato comprensibile, a metà degli Anni Trenta e con l’aria che tirava, che il “Vesuvio” ribattezzato “Ascarelli” dopo la morte del costruttore, diventasse “Partenopeo”. Ma una volta “liberati”…
   A proposito: chissà che con la sua “vista lunga” don Giorgio non avesse intuito l’imminenza delle leggi razziali. Se così  fu, egli riuscì ad anticipare pure quelle, seppure al prezzo più alto…

                                                                                                      Giuseppe Pacileo

Nella foto, il Presidente Giorgio Ascarelli con l'idolo azzurro degli Anni Trenta,  Attila Sallustro

 

             Il Comandante, un “presidente a mezzadria”

    Fu il più classico esempio, forse l’unico così…preistorico, di “presidente a mezzadria”. Non nel senso letterale e sostanziale di spartizione del raccolto a metà, tra il padrone della terra e il contadino che la lavorava, ma nel senso di affidamento temporaneo del proprio bene senza perdere il diritto a comandare. Sua era la proprietà del Calcio Napoli, sua la maggioranza del capitale, ma ad altri veniva affidata la responsabilità della gestione della Società. Parliamo di Achille Lauro, l’inossidabile, intramontabile presidente del Napoli. Resse, infatti,  direttamente la presidenza del sodalizio azzurro, nella prima fase del suo impegno, per cinque anni, dal 1936 al 1940, poi, col suo grande ritorno postbellico, restò sulla massima poltrona della Società per altri tre anni, dal 1952 al 1954, preferendo poi diventare “onorario” dal 1954 al 1969. In pratica, quindi, don Achille  gestì in prima persona il Napoli solo per otto stagioni nei trentatrè anni della sua “presenza” in azzurro. Ma sempre, sia da presidente effettivo che da presidente onorario (nominato onorario proprio perché possessore della maggioranza delle azioni) Lauro fu sempre lui il “grande capo”, l’uomo delle decisioni, il protagonista del bello e del cattivo tempo, delle frequenti crisi e dei successivi auspicati rilanci. In totale, quindi, 33 anni alla guida della Società azzurra, a volte sul proscenio e più spesso dietro le quinte, quasi quanto le stagioni totalizzate da Corrado Ferlaino, l’enigmatico presidente – anche lui a fasi alterne ma più continuo rispetto al Comandante –  al quale nel 1969, a 82 anni suonati, Lauro si decise finalmente a cedere in maniera rocambolesca e definitiva la Società.
   Achille Lauro, considerato uno dei “presidenti indimenticabili”, in verità,  non lasciò una traccia particolarmente prestigiosa nella storia del Napoli, a livello di risultati, ma – come abbiamo detto - operò nell’orbita azzurra, per oltre trent’anni, con il suo classico atteggiamento taumaturgico, con i suoi storici giri di campo col fazzoletto sventolante verso la folla. Fu criticato, osannato, invocato, nel bene e nel male, tra apparizioni salva-crisi, studiate eclissi e presenze di comodo, in una città che nella storia è stata sempre poco propensa a grandi investimenti nel calcio e che ha sempre stentato a trovare mecenati, o presunti tali. (Nella foto, un giovane Achille Lauro)

 DON ACHILLE SUBITO SUL MARE - L’operosa vita di Lauro si intrecciò quasi interamente, fin dall’inizio, con la sua attività di armatore e con quella di pseudo mecenate nel calcio. I suoi termini di misura passarono - di continuo e con disinvoltura - dalla “caratura” delle sue navi, in vertiginoso aumento, alle “azioni” in suo possesso nel Calcio Napoli, anch’esse lievitate, ma in modo anomalo, finche’ le une e le altre ( molto funzionali e determinanti nella sua intensa attività politica, nel periodo di maggior prestigio)  non finirono per abbandonarlo con il sopraggiungere di una pesantissima crisi economica e l’inevitabile avanzare degli anni.
   Achille Lauro era nato a Piano di Sorrento il 16 Giugno 1887, quinto di sei figli, tre maschi e tre femmine, dell'armatore Gioacchino e di Laura Cafiero. Cominciò presto a disertare la scuola, tanto che, all'età di tredici anni, suo padre lo imbarco, come mozzo, sul “Navigatore” . Il primo viaggio di Lauro fu cosi lungo e terribile che, appena ritornato in Europa dall'America, il giovane Achille telegrafò disperato al padre supplicandolo di fargli riprendere gli studi interrotti. Ritornato a Piano di Sorrento, il mozzo ridiventò studente nell'Istituto navale "Nino Bixio", per uscirne, al termine di qualche anno, capitano di lungo corso.
    Il Comandante, dopo aver ereditato dal padre Gioacchino l’attività di armatore, arrivò all’età di  trent’anni, alla fine della Prima Guerra Mondiale, con una posizione di secondo piano di “piccolo armatore”. Ma, una volta acquisita l’esperienza necessaria per rivaleggiare anche con spregiudicatezza, cominciò pian piano a prendere il volo, tanto da arrivare a possedere, nel 1939, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, una flotta di 57 navi, per oltre 300mila tonnellate, grazie anche alla sua idea di farsi affiancare nei suoi affari, come soci,  da molti tra gli uomini che lavoravano con lui. A condizione però che gli lasciassero pieni poteri e fosse lui solo a comandare. Un “principio” che Lauro impose anche in altre sue attività collaterali e fornirono risultati tangibili  quando guidò i vari partiti politici, la società di calcio Napoli, ed il Comune di Napoli, che amministrò per sei anni.
   Sono passati alla storia i s
uoi metodi di procacciarsi i contratti di trasporto, anticipando la concorrenza degli altri armatori, lavorando persino la notte a caccia delle richieste via etere, e addirittura senza possedere nemmeno tutte le navi necessarie, ma con sotterfugi contrattuali. Il che gli consentì di  ampliare il suo giro di affari e di praticare costi assolutamente concorrenziali, grazie alla compartecipazione agli utili dei suoi “dipendenti”.

 IL FASCISMO LO VOLLE PRESIDENTE - Fino al 1935 l'attività armatoriale di Lauro si sviluppò senza legami particolari con il regime fascista.  Poi le sanzioni internazionali della Società delle Nazioni paralizzarono completamente la navigazione mercantile italiana. Le navi erano quasi tutte adibite al trasporto di uomini e materiali bellico verso la Quarta sponda, avendo Napoli come molo d'imbarco preferito. Era il momento giusto per Lauro di intrecciare rapporti più stretti con chi comandava a Roma, facilitato in questa operazione dalla famiglia Ciano che apparteneva anche lui al mondo degli armatori navali. E così fu. Dopo di che,  nel clima di espansione territoriale del Fascismo verso la sponda africana, i rapporti di don Achille con il regime diventarono proficui. Non a caso, fu proprio il Fascismo - col quale era in continuo contatti di affari - a ritenerlo utile per la causa del Calcio Napoli e lo “istradò” nel 1935 verso la presidenza della società, bisognevole di aiuti economici. E Lauro per compiacere il federale partenopeo, in partenza per l’Africa,  aderì al… disinteressato invito, versando anche subito trecentomila lire di tasca propria per contribuire a ripianare i debiti della Società. Presidente del Napoli dal 1936 al 1940 e poi (alla fine della Seconda Guerra Mondiale), dal 1952 al 1954, Lauro preferì però in seguito tenere le redini del sodalizio, ponendosi  dietro le quinte come presidente onorario, agendo dall'alto, nella Società di calcio, attraverso persone di sua fiducia.
   Egli fece la prima esperienza da dirigente del Napoli nel ruolo di vicepresidente nel 1935, in un anno di transizione per la squadra, che aveva cambiato allenatore, passando dal grande  Garbutt ad un nuovo straniero, l'ungherese Csapkay, e nel mentre cominciava tristemente a declinare la stella di Attila Sallustro.
   La Società fu pervasa in quel momento da grandi velleità, con un'impegnativa campagna acquisti, favorita dall'ingresso come soci di facoltosi imprenditori. Il presidente, l'ingegner Savarese, oscurato dal prestigio di Lauro, venne indotto alle dimissioni e cominciò così, con la nomina di Lauro alla presidenza del Napoli, il lungo regno di don Achille: era il 1936. La situazione economica della società non era brillante, ma Lauro, uomo d'azione, poco incline a compromessi e mezze misure, esordì come presidente con estrema decisione. Angelo Mattea, il nuovo allenatore, accettò la lista di proscrizione impostagli da Lauro. Vennero ceduti tutti i giocatori che avevano piantato grane, alcuni anche di valore. La classifica fu, però, modesta e Lauro continuò nei tagli economici, cercando in economia rinforzi su tutti i fronti. Anche il campionato successivo non fu particolarmente brillante ed il Comandante, infuriato, se la prese con l'allenatore che licenziò in tronco. La squadra era deludente ed entrò in crisi il rapporto con don Achille, il quale, amareggiato anche per le numerose critiche alla sua conduzione definita dittatoriale, lasciò la società nelle mani dell'ingegner Del Pozzo e di Leonetti, mentre all'orizzonte incombeva minacciosa la seconda guerra mondiale. Con l’infuriare dei combattimenti e prima della sospensione del campionato per motivi bellici, il Napoli mestamente nel 1941-42 subiva l'onta della prima retrocessione nella serie cadetta. Ma alla sua guida non c’era più Lauro che aveva ceduto il comando della Società al Grand' Ufficiale Luigi Piscitelli. (Nella foto, Benito Mussolini in visita a Lauro, nella tenuta di Sorrento)

  DOPO CINQUE ANNI SI STANCO’ DEL CALCIO - Lauro, in effetti, era intristito di guidare una squadra deludente ed era anche stanco di sborsare quattrini a vuoto. Lui sempre così sensibile al danaro. C’è da considerare, comunque, che molti dei profitti realizzati dalla Flotta in quel periodo gli erano stati garantiti dal trasporto di soldati, armi e materiale bellico tra l’Italia e l’Africa per conto del Fascismo, (che, come abbiamo visto, lo aveva voluto presidente del Napoli)  anche se questa “collaborazione” provocò poi all’arrivo degli Alleati a Napoli il suo arresto. Il palazzo Lauro di Via Crispi fu requisito dagli americani (che vi fissarono il loro Quartier Generale) e la sua attività fu messa sotto sequestro, un’attività peraltro ridotta ai minimi termini, a seguito dei danni patiti dalla sua Flotta, durante gli incessanti bombardamenti degli anglo-americani ai convogli italiani nel Mediterraneo. La superiorità schiacciante del nemico, dotato di radar, fece sì che alla fine delle ostilità si salvassero solo  poche navi, quelle tenute lontane dal teatro delle operazioni. Le altre, erano state tutte inesorabilmente colate a picco dai siluri avversari. Don Achille soffrì molto per questa ecatombe. Nel 1942, grazie alla presentazione di Ciano, era riuscito anche a farsi ricevere dal Duce a Palazzo Venezia, al quale aveva illustrato la situazione drammatica delle sue navi affondate una dopo l'altra. Mussolini lo aveva ringraziato offrendoglì come  forma di risarcimento la comproprietà al 50%  di tutti i quotidiani napoletani dell'epoca: "Il Mattino", " Corriere di Napoli", " Roma" (l’altro pacchetto di azioni restò al Banco di Napoli).
  Nel 1943, quando sbarcarono a Salerno le truppe americane, Lauro rimase a Napoli, credendo che i suoi forti rapporti di amicizia e di affari sulla “piazza” di Londra potessero funzionare da parafulmine, ma  purtroppo un suo vecchio collaboratore inglese, un consulente di nome Williams, lo aveva tradito denunciandolo come colluso col fascismo. Alla fine, la Commissione assolse, però,  Lauro da tutte le accuse, restituendogli la libertà il 22 giugno 1945. Vane le proteste del governo militare alleato, per bocca dell'avvocato Gordon . Lauro era rimasto in carcere per 22 mesi, tra Poggioreale ed i campi di prigionia di Aversa, Padula e Terni.

 LA RICOSTRUZIONE DOPO LA GUERRA - Quando fu liberato, Lauro era un uomo ormai verso la sessantina, privato della sua precedente ricchezza, avviato ad una tranquilla vecchiaia. Aveva chiuso col Fascismo e con la guerra, ma il suo carattere geniale, infaticabile ebbe naturalmente il sopravvento. Di calcio, però, nemmeno a parlarne. C’era tutto da ricostruire, la sua flotta giaceva in fondo al mare e bisognava farla risorgere per la terza volta. Sette navi erano semiaffondate in vari porti italiani e occorreva recuperarle. Fu deciso che per prima si sarebbe dovuta tirare su la "Ravello" colata a picco a La Spezia, ma Lauro dovette fare i conti con gli operai liguri, “comunisti” sfegatati che conoscevano i suoi precedenti. Ma li conquistò con il suo modo di fare, col suo fascino di uomo di mare. E in due giorni la nave fu recuperata.
   In seguito vennero riportate a galla tutte le altre navi affondate nei porti italiani, alle quali si affiancarono due piccole portaerei americane in disarmo, acquistate sul mercato e trasformate in due magnifici transatlantici, la "Sidney" e la "Surriento", che cominciarono a percorrere la rotta per l'Australia. In pochi anni la Flotta napoletana conterà quaranta unità per un totale di seicentocinquantamila tonnellate di stazza, tutte navi battenti bandiera italiana che davano lavoro ad oltre diecimila famiglie di marinai ed impiegati, quasi tutti napoletani. Un grande motivo di orgoglio. Lauro riprese, così, con maggiore lena l’attività di armatore, ottenendo cospicui risultati che gli consentirono qualche anno dopo non solo di rimettere radici nel Calcio Napoli, ma soprattutto di realizzare una imponente ascesa imprenditoriale  e di conquistare un posto di rilievo nell’attività politica.
  Grazie al suo intuito, accompagnato da una certa spregiudicatezza, il Comandante aveva acquistato anche alcune navi Liberty usate dagli americani per i loro trasporti durante la guerra, le rimodernò, sfruttò l’alto costo dei noli marittimi dovuti alle difficoltà di utilizzare strade e ferrovie andate in rovina per la guerra, intuì che l’emigrazione dall’Italia era destinata soprattutto verso l’ Australia e riportò in pochi anni la Flotta Lauro a ricoprire il ruolo di unica grande azienda meridionale privata a dimensione mondiale. (Nella foto, una pubblicità della Flotta Lauro)


QUANDO SCESE IN POLITICA
- Il rilancio della Flotta, naturalmente, non poteva realizzarsi senza l’appoggio dei governanti di quegli anni, impegnati a raccogliere consensi e uomini per combattere la minaccia comunista. Fu così che Lauro nel 1947 scese in politica. Cominciò inglobando, alla vigilia delle elezioni del 1948, gli uomini che Guglielmo Giannini aveva raccolto intorno al partito dell’Uomo Qualunque, incanalando i loro voti  verso lo schieramento democristiano di De Gasperi che – grazie a Lauro – riuscì a formare il suo primo governo senza i social-comunisti. Poi, con i suoi milioni, don Achille tolse dai debiti e comprò la sezione napoletana del Partito Monarchico, un partito che a Napoli vantava una tradizione e aveva ancora molte simpatie, cominciando a percorrere una strada politica in maniera più autonoma a redditizia, spesso anche in contrasto con la D.C.          
   Arrivò così il momento magico. In tutte le sue attività, ogni decisione era presa soltanto da lui, socio di maggioranza, al quale spettavano di diritto la rappresentanza legale e la firma di approvazione di qualsiasi atto. Così nella Flotta, così nel Calcio Napoli, così in politica. All'inizio degli anni Cinquanta la sua potenza economica e finanziaria era eccezionale, possedeva la più grossa Flotta privata d'Europa ed il suo giro d'affari sfiorava, secondo accreditate fonti, i trecento miliardi l'anno, in coincidenza con la guerra di Corea e la crisi del petrolio prodotta dall'esplosiva situazione in Medioriente.
   Nel dopoguerra fu necessario, del resto,  per gli armatori entrare nel gioco della politica al fine di poter fronteggiare la crisi dei noli. La prima lotta fu l'accaparramento delle navi Liberty abbandonate dagli americani, e Lauro, come abbiamo visto, fu tra i primi ad approfittarne. Quindi le lobby si mossero per  l'elaborazione di tutta una serie di leggi a favore della navigazione, dagli sgravi fiscali agli incentivi per rotte particolari, dai contributi a fondo perduto alle esenzioni doganali. Anche Lauro entrò, quindi, nel giro politico per trarne tutti i vantaggi possibili.
    Ma stavolta non restò ai margini, come aveva fatto con il Fascismo negli Anni Trenta.  Forte della sua posizione,  nel 1952, il Comandante riuscì a insediarsi con un largo plebiscito al Comune di Napoli, confidando anche dei sentimenti politici del popolo napoletano  allora, come sempre in passato, sensibile alle promesse e ai capi-popolo. Alla testa di un gruppo eterogeneo composto di nostalgici monarchici, di post-fascisti, di un sottoproletariato napoletano affamato di “poltrone”, il Comandante conquistò facilmente adesioni, in cambio di voti, mentre trovò sostegni nei palazzinari che poi ebbero vita facile nel saccheggio urbanistico della città.
I risultati alle comunali del 1952 furono un trionfo per Lauro: 117.000 preferenze. Nello stesso tempo la coalizione di destra, con 208.000 voti, conquistò 53 seggi, contro i 15 della Dc ed i 12 della sinistra. Il 7 luglio con 50 voti, su 73 consiglieri presenti in aula,  Lauro venne eletto così sindaco di Napoli  e tenne – è il caso di dire -  il suo “discorso della Corona”. I napoletani spiegavano così il loro voto: “Il Comandante  è già molto ricco, non ha bisogno di rubare! ", ma a speculare sulla situazione ci pensarono altri, la grande  e disinvolta “corte” laurina, facendo danni e riempiendosi le tasche, Da sottolineare che don Achille pretese e mise al servizio della sua attività politica, esercitata attraverso varie sigle e schieramenti, anche la squadra azzurra di calcio, con lunghi e scomodi viaggi, partite amichevoli a scopo elettorale, provocando anche reazioni di fastidio da parte di alcuni atleti. Ma tant’è. Il Comandante-presidente si considerava padrone del vapore fino in fondo e ne approfittò, con la sua solita arroganza, come capo onnipotente, sprezzante anche dei “voleri” del Palazzo romano, lui il più applaudito portavoce delle rivendicazioni del Sud. (Nella foto, in alto,  Achille Lauro e Alfredo Covelli, due monarchici di spicco del dopoguerra, ripresi mentre firmano un documento all'ombra del re...)

 
DOPO IL SUCCESSO ELETTORALE, IL TONFO - La disinvoltura amministrativa con cui Lauro, come nelle altre sue attività, il calcio e la Flotta,  trattava la cosa pubblica, facilitarono, però, lo scioglimento della Giunta comunale laurina per irregolarità amministrative. Evidentemente le forze politiche nazionali che erano al potere non avevano gradito molto la sua riconquista del Comune nelle elezioni del 1956. Anche allora fu un successo senza precedenti: 276.000 preferenze al capolista Lauro, i monarchici ottennero la maggioranza assoluta con il 51,7% dei voti e 44 seggi, mentre la Democrazia Cristiana finiva umiliata con il 16%, superata anche dai comunisti, col 19%. Nel 1958 con lo scioglimento del Consiglio Comunale ( sotto l’offensiva della D.C. furono riscontrate gravi, diffuse, sistematiche irregolarità e deficienze) e la sconfitta del suo partito nelle elezioni, prese il via la parabola politica discendente dell’ultra settantenne Comandante. E dire che proprio in quegli ultimi tempi il Comandante aveva cercato con gigantesche e spettacolari battaglie elettorali, di conquistare tutto il Sud, sbarcando con i suoi mezzi in Sardegna e in Sicilia. Invece degli strombazzati due milioni di voti nelle elezioni del ’58 ne arrivarono a mala pena 700 mila. Per Lauro un ciclo storico irripetibile si era chiuso. Gli restò per alcuni anni il Calcio Napoli. E continuò a battersi come un leone. La vicenda terrena dell’ultimo Re di Napoli o l’ultimo Borbone, come amava definirlo Antonio Ghirelli, si chiuderà il 15 novembre dell’82, a novantacinque anni, oberato di debiti, col fallimento in vista e con una grande amarezza, dopo  aver assistito al crollo di tutto ciò che col suo lavoro e la sua abilità aveva costruito. Due anni prima, il giorno dei morti, dopo 120 anni di storia, si era spento anche il " Roma", il suo quotidiano (che per fortuna dopo  dieci anni avrà nuova vita). Il crack era completo, in tutti i campi. Intorno a lui non aveva trovato molti uomini all’altezza del compito (specialmente nel periodo di maggiore splendore), ma fu circondato da tanti cortigiani avidi, pronti all’ossequio, ad arricchirsi ed a tradire. (Nella foto, in alto a destra, il Comandante sente puzza di bruciato intorno a se e allenta l'impegno politico)

 LO CHIAMAVANO "IL PRIAPO DI SORRENTO" - Prima di tornare a trattare la seconda fase di Lauro come presidente del Calcio Napoli (quella del dopoguerra), occorre per completezza d’informazione fare un cenno anche all’attività amatoria dell’esuberante Comandante, un'attività molto chiacchierata. Tra realtà, rivelazioni, leggende metropolitane, aneddoti, cronache amene, la storia di quell’affascinante “marinaio” di lungo corso fu infarcita da avventure, passioni, pizzicotti in ascensori, avances esplicite alle collaboratrici al Comune e alla Flotta e successivamente, in età veneranda, viaggi rivitalizzanti in Svizzera, cure Voronoff personalizzate, “piscioni” vantati e mostrati, ed anche un paio di figli naturali (uno fu costretto poi a riconoscere). Il tutto alle spalle della mite e paziente donn’Angelina. Fino a giungere al travolgente amore senile per Eliana Merolla, in arte Kim Capri, bella e giovane attricetta figlia di un negoziante di Via Toledo. Lauro allestì anche un film per la giovane, tutto a sue spese, ma sulla celluloide il risultato fu disastroso. La bionda Eliana  divenne poi sua moglie nel 1970, quando don Achille, ormai vedovo,  aveva  83 anni. L'aveva conosciuta a 69 anni e lei appena 16. Non ebbe figli dalla giovane moglie. Adottarono dopo poco la piccola Tania, una bella bimba vietnamita. Comunque, Lauro fu un impenitente Don Giovanni, novello Priapo in gioventù, ma dalla virilità straripante, fino all’ultimo. Se fosse vissuto ai giorni nostri sarebbe stato certamente tra i più accaniti e fedeli consumatori di Viagra. (Nella foto, a sinistra, del 1972, il Comandante Lauro ripreso con la giovane moglie Eliana e con la figlia adottiva Tania, vietnamita).

IL PRESIDENTE DEGLI ANNI 50 -  Ma, con un grande passo indietro, lasciamo gli amori e la politica  di Lauro e  torniamo al Calcio Napoli, l’altro suo grande amore. Fu il  secondo ciclo azzurro del Comandante. Nei primi anni del dopoguerra, Lauro tutto impegnato nella ricostruzione della sua Flotta, si era tenuto lontano dal football. Quando, però,  nel Calcio Napoli la situazione sembrò avviarsi allo sbando con la morte improvvisa per infarto del presidente Egidio  Musollino, Lauro non seppe resistere a lungo a quanti lo pregavano di tornare alla guida della società azzurra. Don Achille mise mano al portafoglio e acquistò numerosi giocatori. Con il nuovo presidente subentrò tra i tifosi l'euforia per lo squadrone, ed il Comandante decise di coniugare il calcio con la politica che nel frattempo lo stava conquistando. Non gli poteva sfuggire, del resto,  l'importanza strategica di identificarsi con una squadra amata da centinaia di migliaia di persone. Alla vigilia delle elezioni del 1952, assecondò, quindi,  questi entusiasmi, accettando uno slogan efficacissimo coniato dai suoi fedelissimi: "Per un grande Napoli, per una grande Napoli, vota Achille Lauro numero uno di Stella e Corona". I risultati furono gratificanti, Lauro stracciò tutti con una valanga di voti, divenne sindaco e non deluse i suo tifosi. Fu di parola,  realizzando l’ingaggio storico di Hasse Jeppson, per la vertiginosa cifra di 105 milioni. Acquisto al quale si aggiunse, successivamente, quello altrettanto  prestigioso di Vinicio.
   Purtroppo la coesistenza di Luis con Jeppson, che avrebbe dovuto regalare al Napoli traguardi più ambiziosi, si rivelò difficile. Erano due giocatori eccezionali, ma di temperamento e di scuola molto diversi: freddo e calcolatore lo svedese, esuberante il brasiliano. Non mancarono screzi, che videro protagonista anche Monzeglio, un allenatore abilissimo, ma che col tempo aveva  perso autorità. La disciplina ne soffriva ed il rapporto col Comandante, presidente onorario, ma sempre “il capo” grazie alla sua disponibilità economica,  andò scemando. Lauro in cuor suo avrebbe preferito Amadei come allenatore ed alla prima occasione propizia licenziò in tronco Monzeglio, promuovendo  il frascatano  sulla panchina. Questi, a differenza del suo predecessore, penderà dalle labbra del Comandante, che era consultato quotidianamente alle prime luci dell'alba nella sua villa di via Crispi, durante la sua ginnastica e colazione mattutina, quasi in costume adamitico, ascoltando, ben disposto a tutti i voleri del capo. Amadei otterrà anche un quarto posto, ma Lauro si aspettava di più e gli consegnò il benservito, assumendo Frossi, il quale portò a Napoli, oltre ad una disciplina ferrea, il suo ben noto catenaccio. Ma la fortuna non gli fu alleata e don Achille superstizioso, lo esonerò, convinto, che  la colpa fosse …anche delle lenti nere che il mister portava giorno e notte. Nonostante i cambi continui di allenatori ed un parco giocatori tutto sommato dignitoso, il Napoli conobbe però di nuovo l'onta della retrocessione. E in B fini due volte nel giro di tre anni, nel 1961 e nel 1963. Gli scarsi risultati della squadra lasciarono il segno  sul Comandante. Poi arrivò il giorno nerissimo per il Napoli ed il suo presidente onorario, con la prima clamorosa invasione di campo nell’ancora nuovo San Paolo, nell’aprile del 1963, gara col Modena, lo stadio nelle mani dei vandali invasori, porte distrutte, danni ingenti. Un episodio vergognoso.
   II calo d'immagine di don Achille stava lasciando segni visibilissimi, anche con una perdita di voti oltre misura. La sua lista, abituata a maggioranze assolute schiaccianti, raggiunse un misero 11%. La situazione societaria era divenuta, intanto,  estremamente caotica e Lauro, amareggiato, fece capire chiaramente che si era stancato di continuare a sopportare da solo il peso della società. Occorre ricordare che in tutti questi anni come presidente del sodalizio figurava, del resto,  Alfonso Cuomo, un industriale conserviero, molto mite e signorile, ma Cuomo per dieci stagioni fu semplicemente un prestanome, perché tutte le decisioni venivano ovviamente prese dal Comandante. Persino l’incasso delle partite era prelevato da un addetto della Flotta, il dr. Manfellotto,  e trasferito in Via Marina, nel Palazzo Lauro. Dalla barca che stava affondando don Achille, stavolta scappò e si mise da parte. La situazione della società era disperata. Persino il Prefetto venne interessato dal governo a cercare una soluzione. (Nella foto, Lauro in un suo caratteristico atteggiamento negli anni dei successi : saluta la folla del Vomero sventolando il fazzoletto)


 
LE PARENTESI DI  FIORE E GIOACCHINO- Per fortuna, si trovò il modo di creare una diversa struttura proprietaria al sodalizio  azzurro. Nacque così a Napoli  la prima Società per Azioni nel mondo del calcio, largamente in anticipo sulle norme federali, con un capitale nominale di 120 milioni così suddiviso: 40% a Lauro, 22% a Corcione, costruttore edile e 34% a Roberto Fiore, che divenne anche presidente del Napoli. Seguì un periodo fecondo per la società azzurra, con l’arrivo di due grandi giocatori, Altafini e di Sivori, quest’ultimo grazie all’interessamento diretto di Lauro che convinse Agnelli a cedere l’asso argentino ( in rotta con l’allenatore Heriberto) in cambio di un contratto per la fornitura dei motori di due transatlantici gemelli in quel momento in costruzione. I due campioni riavvicinarono e fecero impazzire la folla. Subito un terzo posto, poi l'anno successivo un quinto posto. Fu davvero un bel Napoli.
   Mentre la squadra finalmente raccoglieva lusinghieri successi sul campo, la società soffriva di rivalità e lotte interne. Il presidente Fiore, messo in minoranza dal gruppo laurino ( geloso dei risultati del nuovo presidente?) nel dicembre del 1967 veniva costretto a rassegnare le dimissioni, lasciando il suo posto a Gioacchino, il figlio terribile e incontrollabile che don Achille volle presidente.  Egli condurrà una gestione paternalistica della società, sotto l'ala protettrice del padre-padrone, con il portafoglio sempre pronto ad aprirsi anche di fronte ad affari discutibili. Unico grande colpo: l’acquisto di Zoff. Poi un mare di guai. Don Achille fu persino costretto ad interdirlo. Un male incurabile  stroncò Gioacchino, ancora giovane. Il Comandante fu assente ai funerali del figlio . " Sapete - disse - i funerali mi fanno impressione" (Nella foto, Gioacchino Lauro con il dirigente azzurro Antonio Corcione)

 FERLAINO GLI STRAPPO’ LA SCENA - Dopo un breve interregno di Antonio Corcione, si stava preparando a comparire sulla scena del Napoli la figura di un giovane ingegnere, costruttore edile, amante delle auto velocissime: Corrado Ferlaino. Il suo impero in azzurro durerà 33 anni e finalmente porterà lo scudetto, ben due volte, all'ombra del Vesuvio.
   Ferlaino seppe conquistarsi la presidenza con abilità, sfruttando un Consiglio dove due fazioni, una favorevole a Lauro e l'altra contraria, si contendevano la presidenza. Il rappresentante del Comandante, l'avvocato Diamante, gli diede fiducia, perché a don Achille era piaciuto quel giovane così deciso, ma che evidentemente non gli faceva ombra. L'apparentemente docile Ferlaino, invece, riuscì a procurarsi anche il pacchetto azionario di Corcione e infine  pure quello di Fiore. Rocambolesco l'acquisto della quota in possesso della vedova Corcione, abitante ad un settimo piano di Via Manzoni. Mentre Fiore saliva lentamente in ascensore, l'ingegnere, più giovane e scattante, percorrendo di corsa le scale, arrivò per primo dalla vedova Corcione e concluse l'affare.
   Achille Lauro non avrà più, da quel momento, una posizione di rilievo nella società, rimarrà presidente a vita, ma il destino del Napoli  finì saldamente nelle mani di Ferlaino, il quale, tra i tanti meriti e diversi errori,  porterà in azzurro Diego Armando Maradona, e con lui due scudetti ed una Coppa Uefa. (Nella foto, Lauro presenta il suo successore, un posato Corrado Ferlaino)
 

                   Roberto Fiore, il “presidente tecnico”


     R
oberto Fiore , il vulcanico “presidente tecnico” del Napoli Anni Sessanta, nacque col destino di presidente. Dotato di gran fiuto organizzativo, e di una buona dose di competenza calcistica, ebbe sempre di mira una presidenza qualunque, nel Napoli, nell’Ischia, nella Juve Stabia, nel calcio, nella pallanuoto (col Posillipo scudettato), mordendo il freno quando – prima nel Napoli, poi nella Lazio - dovette accontentarsi di semplici ruoli dirigenziali. Divenne il presidente del grande rilancio azzurro, dall’intuito imbattibile, non solo sul piano tecnico, ma anche sul fronte manageriale. Fu una presidenza breve, la sua, dal 1964 al 1966, ma ricca di risultati. Bisogna risalire a Giorgio Ascarelli, negli Anni Trenta, per ritrovare una simile svolta radicale e rapida nel Napoli. In solo tre stagioni Roberto Fiore ottenne prima l’immediata promozione dalla Serie B, poi un luminoso terzo posto in Serie A insieme con la vittoria nella Coppa delle Alpi, infine un quarto posto in A, sempre con il fido Pesaola in panchina (che era stato accantonato da Lauro). Finchè non fu costretto, durante quest’ultimo campionato, per le invidie del Comandante (che era rimasto padrone della cassaforte) a lasciare il posto al figlio, “principe ereditario” Gioacchino Lauro. Mai in passato gli azzurri , terzi in classifica, si erano trovati così vicino allo scudetto, e Fiore ebbe il grande merito di far uscire il Napoli del periodo di oscurantismo in cui l’aveva fatto piombare Achille Lauro, dando anche vita, durante la sua presidenza, alla Società Sportiva Calcio Napoli, il primo progetto di società per azioni in Italia, secondo lo schema voluto dalla Federcalcio.
     Fiore era nato a Bellavista il 2 ottobre del 1924, ed ebbe la prima esperienza di presidente con il Vasto, una squadretta del quartiere dove la famiglia si era trasferita ed il papà aveva un bar molto accorsato che rivaleggiava con quello di “Pippone” in Via Santa Brigida, come covo del tifo azzurro. Suo padre Francesco era anche un validissimo poeta che scriveva canzoni in coppia con il maestro Lama, indimenticato autore di “Reginella”. A vent’anni compose con Gambardella ( autore de ‘O marinariello”) “’A cchiù bella d’e’ figliole”. La sua più nota canzone fu “Bellavista” del 1939. Musicarono i suoi versi anche Valente jr. Nardella, Cioffi, Falvo, Tagliaferri, Bonavolontà e Vian. Suo fratello Renato era figlio d’arte. Aveva composto “Suonno a Marechiaro”, interpretata da Sergio Bruni e Mario Abbate e “Ma pecchè” cantata da Iva Zanicchi, “ Ammore celeste” e “Senza ‘e te”, mentre il nipote Angelo aveva cantato e composto per Sergio Bruni. Con questi illustri precedenti, invece di comporre anche lui versi o musicare canzoni, Roberto Fiore preferì agire da “organizzatore” in campo calcistico , fino a giungere nel 1964 alla poltrona di Achille Lauro nel Napoli. (Nella foto, Roberto Fiore al Vomero con Lauro)

GIGINO SCUOTTO GLI APRI’ LE PORTE - Nel 1963, dopo la quarta retrocessione in serie B della storia del club azzurro, Lauro presidente onorario (Alfonso Cuomo figurava come presidente effettivo) aveva deciso di passare la mano, ma pretendeva oltre 400 milioni a saldo per personali contribuzioni non documentate, perché mai nessun rendiconto era stato stilato in società. Il deficit della società ammontava addirittura a settecento milioni. Vani i tentativi di chiudere un accordo sulla vicenda. Respinte varie proposte giudicate insufficienti, il Comandante accettò la nomina di Scuotto, scelto dalla Federcalcio e dalla Lega come commissario straordinario, e ribattezzato “reggente povero”. Fu a quel punto che Scuotto chiese la collaborazione al suo fianco di un giovane dirigente, Roberto Fiore, traghettando il Napoli verso un anonimo ottavo posto in B.

NEL PRIMO ANNO SUBITO  PROMOZIONE IN A
– Nella stagione 1964-65 si avvertì subito la necessità di costituire la nuova società, fino ad allora retta da Scuotto. Questi pilotò verso la presidenza Giovanni Proto, consigliere comunale per il partito monarchico. L’intesa con Lauro, dello stesso partito, sembrava possibile. Ma al momento della firma, nella sede della Federcalcio a Roma, il Comandante non volle saperne di lasciare definitivamente la scena ma intendeva solo trovare nuovi collaboratori e finanziatori. Un altro, insomma, come l’ex presidente Alfonso Cuomo, disposto ad avallare cambiali. Proto, sdegnato dal tradimento di Lauro, strappò la tessera del partito (rimase nel Consiglio Comunale come indipendente) e spostò i suoi interessi verso il Cirio, trasformandolo in Internapoli in Serie D, e scoprendo Chinaglia e Wilson. Successivamente, a fatica, venne varata la S.S.C Napoli che si accollava oneri e debiti della vecchia A.C. Napoli di Ascarelli che era in liquidazione. Fiore fu eletto presidente con Lauro che tornò alla presidenza onoraria. Nella costituzione della Società il capitale sociale di 120 milioni fu sottoscritto subito da Achille Lauro (defalcando i suoi 40 milioni dai 480 del suo credito consolidato, vantato e mai dimostrato), e da Gigino Scuotto con 17 milioni. Il neo presidente Fiore, nel momento del suo insediamento, trovò che restavano da pagare debiti per 423 milioni. A questo punto comparve un nuovo socio: Gioacchino Lauro (primogenito del Comandante); ma mancavano ancora 40 milioni dal Gruppo Fiore e 40 milioni da Corcione-Tardugno. La situazione non era, quindi, affatto tranquilla. Comunque, nel primo anno da presidente, Fiore in tandem con Pesaola centrò subito il ritorno nella massima divisione, ricreando a Napoli un clima di entusiasmo che mancava da tempo. Pesaola promise, sin dai giorni del ritiro, il ritorno in Serie A. La stagione degli azzurri fu quasi una marcia trionfale. Alla fine arrivò il secondo posto ad un punto dal Brescia. "Nell'ultima di campionato" racconta Bruno Pesaola "a Parma ci giocammo la serie A e fu come se fossimo stati al San Paolo. La città emiliana era stata invasa da napoletani. C'erano diecimila tifosi azzurri , ed almeno altri mille erano rimasti fuori dallo stadio perché non erano riusciti ad entrare". Erano le 18.10 quando De Marchi fischiò il 3-1 del ritorno del Napoli in A, ed era la sua quarta risalita nei suoi cinquant'anni di storia. L'entusiasmo divenne dilagante. Sia a Parma (per Fiore fu necessaria un’iniezione di coramina) che in città. Fu festa grande, con la Galleria Umberto I gremita per la radiocronaca. Finì con un anticipo di Piedigrotta. Questi i protagonisti, tutti primattori, senza l'idolo assoluto (come lo erano stati Jeppson o Vinicio in passato ): Bandoni, Adorni, Gatti, Mistone, Ronzon, Panzanato, Emoli, Girardo, Zurlini, Canè, Montefusco, Fanello, Juliano, Spanio, Tacchi, Bean, Corelli, Bolzoni, Fraschini. Fu un bell’anno il 1965, arricchito da altri trionfi napoletani: la Partenope Rugby divenne Campione d'Italia e la Partenope Basket fu promossa in A. ( Nella foto,  Pesaola fu allenatore azzurro  in tutte le tre stagioni di Fiore)

L’ACCOPPIATA MAGNIFICA: ALTAFINI E SIVORI
- Una volta tornato tra le “grandi”, con intuito felicissimo, Fiore acquistò dal Milan Josè Altafini e dalla Juventus Omar Sivori. Il campione brasiliano era in rotta con Gipo Viani che lo considerava “coniglio” e lo aveva quasi venduto alla Juve, quando spuntò Fiore con una proposta più allettante: 280 milioni. Il presidente Felice Riva acconsentì, litigando però con Viani che per protesta lasciò la società rossonera. Ovviamente gran folla all’aeroporto di Capodichino per salutare Altafini. Ma furono di più a radunarsi alla stazione di Mergellina per accogliere Omar Sivori, il secondo colpo di Fiore, il più applaudito argentino a quei tempi sui campi italiani, che però era in aperto contrasto con Heriberto Herrera, allenatore della Juve. Nel suo rigido “ movimiento” non c’era posto per le estrosità di Omar. Erano corse anche parole grosse e nello “stile Juve” non era ammissibile che un giocatore, sia pure un artista come Sivori, osasse criticare l’allenatore. Doveva andar via. Stava per essere esiliato a Varese, quando Fiore contattò la Juve. Occorrevano i soldi. E qui intervenne in maniera meritoria il Comandante Lauro (presidente onorario) che, grazie ai buoni rapporti d’affari che intercorrevano con Agnelli, spuntò un accordo per novanta milioni, pagabili in due anni, ed in cambio commissionò alla Fiat i motori per due sue navi in allestimento, l’Achille Lauro e l’Angelina Lauro. "Credo che sia stata la migliore accoppiata vincente – ricorda Fiore - che ci sia stata nel mondo del calcio negli ultimi decenni, che portò il Napoli, il mio Napoli, tra il novero delle grandi squadre. Stavo trattando, e l'intesa era a buon punto, l'acquisto di Altafini dal Milan quando seppi – aggiunge Fiore - da Emoli che Sivori stava per lasciare la Juventus. C'era però un problema: la Juve era interessata anche lei ad Altafini e quindi non mi potevo presentare da Agnelli e chiedere Sivori". Quindi Fiore decise di correre ad uno stratagemma: "Nell'albergo dove si facevano le contrattazioni, parlando al telefono con un mio amico ma fingendo di parlare con Sivori, dicevo a voce alta che non potevo accettare le sue condizioni: 50 milioni di ingaggio, casa a Posillipo, autista e così via, ma che potevamo metterci d'accordo. La notizia, come previsto, fu ascoltata da qualche giornalista che la riportò sui giornali e la Juve si ritrovò dinanzi al fatto compiuto. Apprese della trattativa per via indiretta. Piccole astuzie che facevano parte di un altro calcio, molto più romantico. Per la sua cessione pattuii la cifra di cento milioni che poi divennero 90 grazie all'interessamento di Lauro". (Nelle foto, uno degli striscioni al San Paolo per Fiore e Sivori esultante, al fianco di Fiore, dopo  il successo sul Milan per 1-0 con un suo gol)

NAPOLI TERZO, VICINO ALLO SCUDETTO - Questi due campioni, insieme all'altro brasiliano Canè, al giovane Juliano (destinato alla Nazionale) , a Panzanato, a Bean, a Ronzon, a Bandoni, resero oltre le loro possibilità. Il Napoli finì terzo con 45 punti, ad un punto dal Bologna secondo e 5 punti dall'Internazionale Campione d'Italia , prendendosi lo sfizio di rovinare la festa del decimo scudetto ai nerazzurri. Proprio nell'ultima di campionato piegò i nerazzurri al San Paolo per 3 a 1, con una doppietta di Altafini. Subito dopo vinse la Coppa delle Alpi ( torneo italo-elvetico al quale presero parte, tra gli altri, anche la Juventus, il Catania e la Spal). Un campionato entusiasmante, con vittorie di prestigio e folla sempre strabocchevole al San Paolo (ottocento milioni incassati per abbonamenti) . Soprattutto osannato fu Sivori. Numeri di classe finissima, avversari derisi, beffati: Omar divenne per i tifosi una sorta di vendicatore, l’uomo del riscatto, quello che, per dirla alla napoletana, “toglieva i paccheri dalla faccia”. Alla fine del secolo, Sivori ed i tifosi azzurri troveranno in  Maradona, un altro argentino fantasioso, un degnissimo erede, come uomo delle rivincite. (Nella foto, Sivori e Altafini)

L’INVIDIA DI LAURO LO COSTRINSE A DIMETTERSI
- Ma nella sua terza stagione (quarto posto) Fiore non giunse alla fine. Don Roberto, che, a buon ragione, poteva rivendicare gran parte del merito degli ultimi successi, attirò su di se’ non poche invidie. Una parte della dirigenza gli fu ostile e rese più palpabile una certa precarietà economica della società, nonostante gli incassi e i 69 mila abbonati. Bisognava stare vicino a don Roberto, sostenerlo nelle sue modeste disponibilità economiche. Invece, l'eccessiva popolarità di Fiore aveva cominciato ad infastidire soprattutto Lauro che, una volta riuscito a consolidare l'asse con Corcione, fece di tutto per rendere difficile la vita a Fiore fino a quando lo costrinse a dimettersi nel dicembre del 1966. Non ci fu la temuta sommossa ( sperata da Fiore) tra i tifosi e Lauro ne approfittò. Dopo un periodo di commissariamento dell'avvocato Diamante, i poteri passarono, così, nelle mani dell'onorevole Gioacchino Lauro, che non possedeva né le capacità né il carisma del predecessore. La squadra, sull’abbrivio del lavoro di Fiore, si classificò al quinto posto con 44 punti, ma avrebbe potuto fare molto di più. Era un Napoli splendido, con tre giocatori in Nazionale (Juliano, Bianchi e Nardin), ma Lauro non lo capì. Più sensibili della gran massa dei tifosi, rimasti indifferenti al ritiro di Fiore, furono i calciatori azzurri: quando seppero del suo addio, salirono a trovarlo a casa, in Via Scarlatti, al quartiere del Vomero, per un festoso saluto, che in realtà celava anche una sincera tristezza ed un chiaro riconoscimento. I calciatori festeggiarono Fiore, quasi in lacrime, con una medaglia ed una semplice dedica: "Forza Presidente". (Nella foto, l'allestimento di uno striscione per Sivori, ma anche per Fiore, a dispetto di Achille Lauro)

STAVA PRENDENDO PELE’ IN PRESTITO
- Fiore è ricordato tra i tifosi soprattutto per aver portato a Napoli Sivori ed Altafini, ma lui vorrebbe che fosse ricordato anche per aver preso Claudio Sala, Bigon, Bianchi e Panzanato. ”A Lauro – ricorda – proposi anche l’acquisto di Aroldo, un altro brasiliano che giocò vari anni in Nazionale, ma lui voleva i giocatori di peso e poiché Aroldo era molto magro non acconsentì all’acquisto. Così come gli consigliai Canè, ma lui lo prese solo perché in fotografia era brutto e nero. Diceva che faceva paura agli avversari. Ma Fiore non si fermò a Sivori e Altafini. Pensava a Nils Liedholm per il settore giovanile, e per rinforzare ancora di più la squadra, puntava al famoso fantasista granata Gigi Meroni, il cui acquisto fu ostacolato, praticamente impedito, da Lauro e dai dirigenti Tardugno e Corcione, probabilmente invidiosi dei successi di don Roberto, che aveva anche arruolato 69 mila abbonati. E così l’affare sfumò. Quello che non tutti sanno – ricorda il vulcanico Fiore – è che proposi ad un manager brasiliano il prestito per una sola stagione di Pelè per la faraonica cifra di cento milioni. Pelè mi spedì anche una cartolina e sembrava disposto a venire in Italia, per questo esperimento, ma feci l’errore di accennare il mio progetto a Sivori. Capii così che Omar non era affatto entusiasta della mia idea e per evitare fratture nello spogliatoio mandai a monte l’iniziativa.” Fiore “presidente tecnico” non fu, quindi, definizione sbagliata.( Nella foto, il grande Pelè: era entrato nell'obiettivo di Fiore)

LA BEFFA DELL’INGEGNERE
- Don Roberto stava mettendo di nuovo le mani sul Napoli nel 1969, quando si impegnò con altri dirigenti ad acquistare le azioni della vedova del compianto Corcione per contrastare la posizione dominante di Lauro, ma fu preceduto dallo scatto di Ferlaino che, fatte le scale quattro a quattro, (mentre Fiore aspettava l’ascensore che doveva portarlo al settimo piano) riuscì ad infilarsi nell’uscio un attimo prima che si chiudesse, offrendo alla signora Corcione più del doppio (80 milioni) del valore nominale (36 milioni) delle azioni del defunto marito. Fiore, comunque, era convinto che Ferlaino avesse agito per nome suo e del gruppo che aspirava ai vertici, ma Corrado precisò subito dopo il blitz in Via Manzoni: “ Le azioni le ho comprate io e sono mie!” Vistosi ancora sconfitto, stretto nella morsa Lauro-Ferlaino , Fiore dopo pochi giorni preferì vendere all’usurpatore Ferlaino anche il suo 21% per l’allettante somma di 183 milioni, oltre sette volte il valore nominale che era di 25 milioni e 200 mila lire. Comunque, fu un buon affare economico per don Roberto. Così Ferlaino si impossessò della presidenza. ( Nella foto, Corcione tra Fiore e Sivori, suo grande amico)

LA SUA VERSIONE SULLA SCALATA DI FERLAINO - Fiore, comunque, su questo notissimo episodio della doppia scalata dell’ingegnere, nel palazzo di Corcione in Via Manzoni e poi nel Calcio Napoli, con il suo spirito bizzarro, dà una versione diversa, molto napoletana, tutta scaramantica, che va riportata: “ Da anni circola questo racconto diventato quasi una leggenda. Quella volta non ci fu stratagemma. La verità è che io sono una persona molto superstiziosa e avevo notato che tutti i presidenti che mi avevano preceduto morivano o fallivano. Ricordate Ascarelli, Musollino? I più noti. Dopo anni che facevo il presidente della società ero molto stanco e dissi al Comandante che volevo fare solo l’amministratore delegato. Proposi allora di fare eleggere presidente suo figlio Gioacchino che morì quattro mesi dopo, a quasi cinquant’anni. Dopo di lui fu nominato presidente Corcione che morì dopo sei mesi per un tumore. E fu allora che dissi alla vedova Corcione: “Il presidente facciamolo fare a Ferlaino” Ma dietro questa mia decisione, lo assicuro, non c’era neanche un pizzico di cattiveria.” Come si fa a credergli, conoscendo i fatti veri di quel periodo? (Nella foto, il Comandante Lauro tra il figlio Gioacchino ed Andrea Torino, dirigente e grande amico di Lauro)

DE LAURENTIIS CAVALLO DI TROIA? - Uomo dalla vista lunga, l’ultima volta che Roberto Fiore si mise in luce fu quando sponsorizzò l’ingresso di Aurelio De Laurentiis nel Napoli di Ferlaino. L’ingegnere cercava con discrezione acquirenti e Fiore gli portò su un piatto d’argento l’offerta del produttore cinematografico. Il 5 luglio del 1999, De Laurentiis, al fianco di Fiore,  presentò la sua proposta di acquisto. In pratica, non intendendo trattare con Ferlaino, De Laurentiis voleva che Ferlaino mettesse il titolo a disposizione della Federcalcio e poi lui, a sua volta, lo avrebbe acquistato dalla FIGC per 50 miliardi. Per questa operazione De Laurentiis aveva costituito la Società " Auro Calcio 2000" e si era garantito una copertura bancaria per 100 miliardi, quindi anche i soldi per una buona campagna acquisti. Ma la conferenza di De Laurentiis, organizzata al Circolo della Stampa, con le relative proposte (e molte freddezze), non ebbe un seguito. Ferlaino non  esaminò nemmeno il progetto. Non ci fu replica da parte del presidente azzurro. Ai più (e a Ferlaino soprattutto) era sembrato che De Laurentiis, “sprovveduto” sul piano calcistico, fosse il “cavallo di Troia” per far rientrare sottilmente Fiore nella Società. O forse più semplicemente l'offerta non era sembrata degna  d'attenzione  all'ingegnere.  Ferlaino nell'aprile dell'anno successivo vendette il 50% della Società a Corbelli. Questi coprì con 100 miliardi le esposizioni di Ferlaino verso le banche. Il nuovo arrivato acquisì in comproprietà anche un suolo a Giugliano e le quote di maggioranza di palazzo D'Avalos. Ma la storia del Napoli cambiò egualmente qualche anno dopo. (Nella foto, Aurelio De Laurentiis con Roberto Fiore al Circolo della Stampa nel 1999)



                     Gigino Scuotto, il Richelieu azzurro
                                              di Giuseppe Pacileo

   Negli annali non figura tra i presidenti del Napoli. Era allergico alla carica, la ricoprì nel 1945 solo per un mese, in maniera diciamo così tecnica, per la rifondazione dell’Associazione Sportiva Napoli , poi tornò dietro le quinte. Dietro quelle quinte da cui per decenni orientò, raddrizzò, salvò le sorti del Napoli. Tra le sue diaboliche trame, moltissime e non tutte “raccontabili” anche se prescritte nel tempo, i due grandi capolavori di Gigino Scuotto furono quelli organizzati e portati felicemente a termine nel 1962 per un tentativo di corruzione e l’anno dopo per un caso di doping. Nella prima vicenda, Scuotto riuscì a smantellare tutte le prove che erano state raccolte contro il Napoli per un “presunto” tentativo di comprare a Verona la gara della promozione in Serie A (dicono manipolando nastri magnetici e svalutando un superteste che d’incanto avevano perso voce, chiarezza e memoria).
   Nel secondo caso, dopo una vittoria del Napoli, a San Siro per 1-0 sul Milan, gol di Corelli, il Napoli si giovò di una sentenza più mite in un processo per uso di doping contro alcuni giocatori azzurri. Prima (dopo un allarme lanciato da Beato) furono organizzati negli spogliatoi travasi d’urina “pulita”, mentre tre altri contenitori diedero agli esami di laboratorio risultati impensabili. Gli è che la “mano” di Scuotto si intuì in quanto durante il trasporto delle provette in laboratorio in taxi si era fatta una sosta per prendere un caffè e la borsa con i liquidi era rimasta in auto. Chissà forse il caldo... Certo è che al momento delle analisi sembravano liquidi organici di animali provenienti da un altro mondo! E nelle sentenze ci scappò un compromesso, con la condanna di solo quattro azzurri ad un mese di sospensione. Scuotto aveva salvato il salvabile.
     Ed ora dilunghiamoci un tantino sul personaggio. Merita adeguato spazio nella lunga vicenda del Napoli: oltre vent’anni di presenza ed incidenza, ma quasi sempre dietro le quinte. Una sola volta si arrischiò a lungo nel cono di luce del proscenio e ne rimase distrutto, definitivamente.
    Vent’anni: da quel primo di giugno 1944 allorchè fece parte del gruppetto che fondò la Società Polisportiva Napoli fino al ’64, giugno egualmente, quando dov’è lasciare il passo a Roberto Fiore, dopo quasi un anno di zoppicante “reggenza”. Presidente no, soffriva d’allergia per quella definizione. Presidente – come abbiamo detto - fu soltanto una volta, dal 19 gennaio ’45 sino al 21 di febbraio successivo, dell’Associazione Sportiva Napoli, nata dalla fusione tra la predetta Società Polisportiva e la Società Sportiva Napoli (il bizantinismo degl’individualismi napoletani…). Vicepresidente, invece, passi. Reggente con Cuomo per breve periodo nel 1951. Membro della Giunta a sei inventata da Lauro due anni dopo. Fu lui, Scuotto, che don Achille propose come “assistente psicologico” per domare una rivolta di Monzeglio (che odiava Scuotto d’un sentimento viscerale: qualcosa come Bearzot contro Allodi…); fu lui che accompagnò Pesaola alla firma per l’esordio quale allenatore del Napoli. E chissà quante campagne-acquisti condusse oppure orientò, chissà quante paroline decisive sussurrò dalla penombra al momento giusto.
     Esperto come pochi – a Napoli unico – di regolamenti e relative tecniche per aggirarli, molti servigi rese al Napoli; ma quasi sempre di quelli che non consentono di vantarsene. Dunque, paragonabile agli “eroi” sconosciuti che – su ben altra dimensione - orientano i destini del mondo (CIA,KGB, Deuxième Bureau e così recitando). Dunque, un “eroe” in negativo; meglio, forse: la negativa del ritratto d’un “eroe”; che venisse stampata, quella foto, non volle lui, pur possedendo notevolissime doti dirigenziali. Ma, innanzitutto, non possedeva tutti i quattrini che gli sarebbero occorsi, e tanto meno la voglia di rimetterci.
     Trovò modo di usare quelli ‘d’altri, ben conscio del celebre detto. “Les affaires? Mais c’est simple! Ce sont l’argent des autres” Gli affari? Facile: sono il denaro altrui.
Sapeva aspettare. Al sopraggiunger delle emergenze, o lo chiamavano, oppure egli stesso con tempismo notevole, s’infilava nel girotondo. Lauro lo rispettava, un po’ lo temeva, nel complesso lo trovava riposante e utile, sempre disposto all’accomodamento. Due attività aveva coltivato in gioventù: la scherma (e gli capitò di affrontare in duello Silvio Gava, l’emigrato veneto superpotenza politica in Castellammare, poi ben oltre) e l’arbitraggio. Facile chiave di lettura: esperto nell’arte delle attese, delle finte, de’ tempestivi affondi e, insieme, naturalmente portato ad arbitrare, dunque a valutare, dirimere controversie, decidere ne’ tempi dovuti. In breve: eminenza grigia per costituzione mentale, puntava diritto al sodo: non pronunciare brindisi al banchetto ma piuttosto di quei banchetti esser l’organizzatore e possibilmente il fornitore. Eminenza grigia, però direi di più di un Richelieu.
     Al Napoli del dopoguerra, intanto, procurò due campi di giuoco: quello provvisorio dell’Orto Botanico, l’altro – per ben più lunga pezza – al Vomero (con annessa sede). Di quegli anni narrerò due vicende relative al Nostro. All’Orto Botanico – era l’immediato dopoguerra – s’acconciarono ad organizzare una riunione di pugilato lui, Ernesto Centobelli, Enrico Marcucci e qualche altro. Incontro di cartello, fra un negrone dell’esercito americano e Michelone Palermo, idolo locale. Le sedie vennero prese in prestito da una vicina parrocchia, tutto pareva pronto; ma all’ultimo momento si volatilizzò ‘o niro.
     Il pubblico attendeva entusiasta, impaziente…E che si fa? Fulminea la decisione: acchiappano un altro negro, gli spiegano a segni come stanno più o meno le cose, gli ficcano in mano un pacchetto di AM-lire. Quello si prepara. Forse ancor più difficile spiegarsi con Michelone: “Vacci piano, è un avversario rimediato, tira l’incontro per le lunghe, difenditi. Poi verso la sesta-settima ripresa lo stendi. Chiaro ?” Michele Palermo annuì. All’inizio il nero appariva piuttosto timoroso, poi s’accorse che l’italiano non picchiava; prese lucciole per lanterne. Tutto ringalluzzito, cominciò a darci dentro lui, e tanto bene ci riuscì che – a un certo punto, troppo presto! - Michelone perse lo ben dell’intelletto e con un solo sganassone polverizzò quel presuntuoso. Catastrofe! Pubblico inferocito, si salvi chi può. Nell’ammoina generale due esseri disperati: un parroco che vede andare in frantumi le seggiole della sua chiesa ed un sedicente pugile di pelle nera che lancia urli forsennati perché, e ti pareva?, nella calca gli avevano sfilato il rotolo di AM-lire dal taschino posteriori dei calzoncini. Fin qui la variazione pugilistica. Per tornare al calcio spostiamoci avanti nel tempo, fino a giugno del ’51 e nello spazio fino allo stadio “Appiani” di Padova.
     Si concludeva il primo campionato del Napoli dopo il ritorno in Serie A. Buona la classifica, non migliorabile. Torna in campo Gegio Gaggiotti gran manovratore di risultati – certe cose nel calcio sono accadute sempre – che pur col Napoli aveva “fatto affari”. Scuotto lo chiamava ‘o bbandito… Quel tale si vantava d’aver “combinato” intorno alle seicento partite e proprio nel Napoli era riuscito a piazzare un fratello calciatore. Quel giorno il Gaggiotti…a bulloni giocò due partite; una appunto a Padova. Però – relata refero – fu all’azzurro Bruno Gramaglia che qualcuno (…) soffiò in un orecchio che gli conveniva comportarsi rudemente in area di rigore; e Gramaglia capì (sembra che il Padova avesse promesso a Scuotto di favorire, in caso di vittoria dei locali la cessione in azzurro di un giocatore già prescelto) . Però tra i pali napoletani campeggiava una specie di Michelone Palermo della pelota, il gigantesco Casari. Due rigori, due paratone. Evidentemente non avevano informato anche lui... Ci volle la mano di Dio perché Martegani riuscisse a piazzare in rete le due palle che salvarono il Padova e condannarono alla B la Roma…. E quel giocatore gradito dal Napoli naturalmente restò a Padova.
     Così era don Gigino. Fatto sta che – Monzeglio escluso – non v’era chi non lo trovasse simpatico. A cominciare dal Comandante; il quale, chissà, manco s’accorse che qualche volta Giggino “lo faceva fesso”. Basti pensare che girava, in certe particolari occasioni, con due telegrammi in tasca: a seconda di come finiva la partita, tirava fuori l’uno oppure l’altro, per dare la sua versione dell'andamento dei fatti, ritrovandosi ovviamente sempre dalla parte della ragione. Se andava contrariamente al promesso e previsto, già era predisposta la spiegazione “dell’imprevisto all’ultimo momento” Fatto sta che, dopo essersi tanto adoprato a corbellare accusatori e giudici per aiutare il Napoli, proprio Scuotto finì con l’affossarlo l’ennesima volta. Nella stagione 1963-64 riuscì a “lavorarsi” Lauro per acquisire i pieni poteri quale “reggente” , ma capì poi col tempo che l’astuzia e l’esperienza non bastano per guidare al successo le ambizioni calcistiche di una grande città; che inoltre molto spesso ciò ch’è fatto è reso. Lassù troneggiava, inespressivo, il nume Achille, che non poco l’aveva deluso. Da giocatore accorto, Scuotto, reggente povero – come amava definirsi - passò la mano.
     Peraltro va rilevato che con le sue manovre Scuotto riuscì di fatto ad accelerare l’avvento di Fiore,grande svolta nella tormentata vicenda del calcio a Napoli. Egli sparì. Riebbe notorietà una decina d’anni dopo, quasi settantenne (era nato il 5-3- 1905) in panni d’autore di canzoni. Gli mancava soltanto di cantarle per poter dire alla maniera di Armando Gill: parole di Scuotto, musica di Gigino, cantata da Gigino Scuotto. Nel Napoli, per tante cantate, era invece andata proprio così.

                                                                                                      Giuseppe Pacileo

Nelle foto, in alto a sinistra, Gigino Scuotto con Achille Lauro e Paolo Innocenti allo Stadio del  Vomero; al centro a destra, Scuotto, compositore di canzoni, al piano.

                                                                                                  

                     Napoli, il Napoli, lo scudetto e l'ingegnere
                                              di Gino Palumbo

     Napoli, il Napoli e il suo primo scudetto. Ecco le impressioni sullo scudetto dettate da Gino Palumbo, grande, indimenticato giornalista napoletano. Gino Palumbo, già Capo del Servizi Sportivi de Il Mattino, e Direttore di SportSud negli Anni 50, poi a Milano responsabile dello sport del Corriere della Sera, quindi direttore del Corriere d’Informazione e infine, per sette anni, Direttore della Gazzetta dello Sport, scomparso, a 66 anni, nel settembre del 1987, dopo aver rinunciato per motivi di salute alla prestigiosa direzione del Corriere della Sera. Le impressioni sullo storico evento calcistico partenopeo sono state raccolte nell’intervista-testimonianza rilasciata da Gino Palumbo a Enrico Parodi , autore di un libro sulla vita del famoso giornalista.


 
  S
econda domenica di maggio dell’ottantasette. Napoli conquista per la prima volta lo scudetto, si colma un vuoto assurdo: la città ha sempre donato al calcio miliardi e passioni. Gli ingredienti per il successo esistono da decenni, ma prevaleva sempre un male antico: l’improvvisazione. Così le continue sconfitte si sono trasformate in angoscia, quasi fossero prove d’incapacità collettiva, segno d’inferiorità irreversibile. Lo scudetto è diventato realtà aggiungendo efficienza milanese all’estro, al cuore, al calore napoletani. E ora quegli attimi di baldoria dicono: anche noi siamo capaci. Prima del trionfo i tifosi si tenevano per mano, quasi senza parlare: tacevano la parola scudetto, ma ammiccavano dandosi di gomito. Una “sceneggiata del silenzio” di ispirazione teatrale: scaramanzia, orgoglio, consapevolezza di essere vicini a un traguardo storico. E il Nord si intenerisce, esprime ammirazione, simpatia.
    Poi, dopo sessant’anni, lo scudetto. Un successo arrivato prima sarebbe stato immeritato, casuale, sporadico. Ora è frutto di un lavoro caparbio. Il Napoli ha costruito un’intelaiatura solida: è il capolavoro del presidente Corrado Ferlaino, questo trionfo porta la sua firma. L’impegno dell’allenatore, le qualità dei giocatori non bastano in un ambiente difficile qual è quello napoletano. Se la società non avesse funzionato, tutto sarebbe crollato a metà torneo: come tante volte è accaduto in passato. L’atteggiamento responsabile e rigoroso di Ferlaino contagia anche i tifosi, fanno festa senza invadere il terreno del San Paolo. E’ dimostrato: una società seria genera pubblici maturi.
Maradona. Lui incanta gli avversari con magiche invenzioni, la sua smania di vincere contagia la squadra. La città lo idolatra, lo trattano da figlio. Ma lui esige il monopolio sulla sua vita privata. Invece è personaggio pubblico: in campo e fuori. Deve fare attenzione: non può permettersi certe insofferenze.
    Questo scudetto, comunque, non cancella le miserie, né attenua le amarezze; i problemi rimangono: ma il calcio dimostra che è possibile risolverli, organizzandosi. E quell’entusiasmo può diventare spinta galvanizzante verso aspirazioni più elevate. Poi lo scudetto prova che il vittimismo è ingiustificato: smaschera i napoletani che non assumono iniziative, rifiutano le responsabilità e aspettano la manna dal cielo. Ovunque senti ripetere “Ma chi te lo fa fare? Qua non si può fare niente!” E incolpano gli altri, lo Stato. Quell’atteggiamento nasce dalla cultura araba e dalle dominazioni spagnole: è la più grave malattia di Napoli. Anche qui si può, invece, lavorare bene: certo serve più tenacia, forza di volontà. Napoli non aiuta chi si industria. E se qualcuno vuole andarsene, prima lo agevolano, poi lo colpevolizzano.
    Milano è competizione, emulazione. Di fronte a chi ha successo, pensano: se lavoro e mi impegno come lui, riuscirò anche io. Invece a Napoli dicono: ma come avrà fatto? Avrà rubato qua, avrà rubato là; forse la sorella è amica del presidente del Banco. Insomma, cercano mille pretesti. Intanto cercano di spingere giù quel poveretto che è “riuscito”, non per rubargli il posto, ma per ribadire che qui nulla si può fare. La carriera degli altri non fa da pungolo, diventa specchio per le proprie pigrizie e va spezzato. Napoli è un’adorabile città, fa struggere di nostalgia, ma è spietata con chi, napoletano, cerca di servirla con un lavoro serio. Scatta un inconscio meccanismo di gelosia: e si placa soltanto quando l’ “intraprendente”, deluso e amareggiato, si arrende e rientra nei ranghi degli scettici, Ma se Napoli morirà non morirà sola: trascinerà con sé tutto il Paese; servono interventi d’alta chirurgia, non impacchi con semi di lino.
                                                                                                              Gino Palumbo

Nelle foto: in alto, lo striscione di successo "Scusate il ritardo", ispirato al film di Troise,  durante i festeggiamenti per il primo scudetto; in basso Gino Palumbo al matrimonio di Louis Vinicio.

     

       Un raptus nordista contro i due miliardi per  Beppe-gol
 
   L’
acquisto di Savoldi, valutato tra contanti e cambio-giocatori due miliardi, suscitò nel 1975 un vespaio di polemiche, come quelle che si addensarono su Napoli in occasione degli altri tre “grandi colpi” realizzati dalla società azzurra nella sua storia: l’acquisto di Colombari nel 1930 , per 250 mila lire, quello di Jeppson nel 1950, per 105 milioni, e infine quello dell’impareggiabile Maradona nel 1984, per 13 miliardi. L’ingaggio di Beppe-gol mise letteralmente a soqquadro il mondo del calcio, provocando reazioni contraddittorie anche da parte di chi , come la Juve, il Milan e la Roma, fino all’ultimo avevano lusingato il Bologna per poter acquistare il bomber e che poi si unirono al coro di quanti restarono scandalizzati per la valutazione data al giocatore. Soprattutto al Nord vennero rispolverati i vecchi, irrisolti problemi di Napoli, i suoi guai, le sue miserie. Addirittura fu dato ampio risalto al deficit comunale, sottolineando (assurdamente) che con quei soldi si potevano pagare gli stipendi dei netturbini in sciopero (nella foto il ritaglio di un quotidiano). Un giornale milanese uscì addirittura con la “foto della monnezza” sotto il titolo a tutta pagina dei due miliardi, quasi a voler significare che il Napoli avrebbe dovuto sostituirsi alle autorità , stipendiando netturbini privati. Fu “un raptus sarchiaponico moraleggiante che percorse l’Italia da Roma in su” come scrisse opportunamente Giuseppe Pacileo su “Il Mattino”, in polemica soprattutto con la desolata “Gazzetta dello Sport” che guidò la crociata di denuncia per lo “sperpero” napoletano, ignorando, invece, i precedenti e recenti acquisti-record di Sormani (Roma), Anastasi e Tardelli (Juve) Speggiorin (Fiorentina), e soprattutto trascurando che Agnelli era disposto a sborsare per Savoldi qualche anno prima la stessa cifra impiegata dal Napoli.
   Si parlò di “schiaffo alla miseria”, ignorando che “la plebe napoletana”, come chiamarono i giornali del nord i tifosi azzurri, era rimasta tutt’altro che indignata e in fin dei conti si pagava in proprio i suoi “sollazzi calcistici”, con i biglietti e gli abbonamenti. La verità era che il Napoli stava per diventare un brutto spauracchio per le “grandi” e che il colpo aveva dato fastidio soprattutto in chiave di concorrenza.
   A tal proposito ci piace riprodurre l’articolo magistrale e controcorrente scritto in quei giorni da Enzo Biagi sul “Corriere della Sera”, con una convinta difesa dell’acquisto del Napoli, in risposta alla inopportuna crociata di chi, scandalizzato, stava cavalcando la questione della miseria e della disoccupazione, che pur assillavano la città.

               Savoldi come San Gennaro
                                di Enzo Biagi

       Non conosco l’ingegnere Corrado Ferlaino, ma deve essere un personaggio notevole. In un posto come Napoli è riuscito a mettere in piedi una forte squadra di calcio. Può comperare un centrattacco pagandolo due miliardi, e niente cambiali, contanti. Non capisco perché non lo abbiano fatto sindaco o mandato a Montecitorio. In una città che abbia per simboli l’Alfa Sud, dove si lavora un giorno su due, il vibrione, che è in agguato tutto l’anno, e la raccomandazione, che dà diritto a diventare spazzino e a non raccogliere le immondizie, ecco un uomo capace, moderno, che conosce la psicologia delle folle, le regole del bilancio e le astuzie della contrattazione.
La sua ultima, leggendaria e meritoria impresa, l’acquisto del “cannoniere” Giuseppe Savoldi, ha suscitato lo sdegno nazionale: attacchi da ogni parte, sinistra e destra, perché l’ipocrisia e la stupidità non hanno tessera.
   Secondo la stampa degli extraparlamentari, l’affare avrebbe scandalizzato, prima di tutti, “le masse povere”. Ora sono proprio questi diseredati che gremiscono lo stadio, e affrontano una ritenuta sulla busta-paga per avere i vantaggi dell’abbonamento. E’ il proletario che ha bisogno di prodigi. San Gennaro, Piedigrotta, e i gol della domenica, e non mi pare poi una grave colpa.
    Perché a gente che ha così poco volete togliere anche la partita? Perché, almeno in materia di calcio, non devono sentirsi cittadini di Serie A? E cos’è questa storia degli “schiavi d’oro” sottoposti a un volgare peccato? Forse che un metalmeccanico, disdegnerebbe, in caso di trasferimento, un cospicuo premio di ingaggio?
    E questi moralisti hanno mai sentito parlare, per esempio, di Lev Ivanovic Iascin, detto “il ragno nero”, il grande portiere sovietico, che andava in giro, tra un popolo di appiedati, su una lucente Volga azzurra, e adesso possiede, nientemeno, un appartamento di tre camere e ingresso?
   Le gambe anche all’Est, hanno sempre avuto il loro peso, si tratti di quelle della danzatrice Plisetskaia , o del calciatore Puskas: se un attaccante segnava spesso, poteva anche diventare colonnello, e in eserciti dove le riforme non fanno ridere.
   Laggiù la sveglia, al mattino, non è un garbato invito a prendere atto che è spuntata l’alba, ma l’ordine di mollare la branda, ufficiali e soldati si danno del tu, ma il compagno capitano manda con cameratesco slancio il compagno fante a pulire le latrine, e i militari che vanno in licenza e che incontri alla stazione sono in divisa, perché non si vede come possa essere un onore indossarla per la strada e uno scomodità portarla in treno.
   E poi, è più vergognoso ingaggiare una mezz’ala, un terzino o un deputato? Trattare all’Hilton o nelle segreterie dei partiti? Di che cosa dovrebbe stupirsi un Paese che ha aperto, più o meno formalmente, quattro o cinque inchieste parlamentari, e sempre per questioni di quattrini, e tiene sospesi tre o quattro drammatici processi, e sempre per ragioni legate alla politica?
   E le obiezioni di destra, dove le mettiamo? Che ridere. Sì, l’accusa di spendere tanti soldi dietro a un pallone. Prima di tutto si tratta di uno scambio di carta tra privati, alla quale si dà, più che altro, un valore convenzionale, una specie di baratto, come quelli che intrecciava Cristoforo Colombo con i pellerossa: io ti do tre specchietti e sei perline e tu mi dai un po’ di quel metallo che brilla, dalle mie parti lo chiamano oro. Io ti do un’ala tornante e tu un libero e un mediano di spinta.
   Accade in tutto il mondo che i ragazzi che sanno lanciare bene la sfera di cuoio facciano carriera. In America gli dedicano anche monumenti. Nelle patrie del socialismo sono esonerati dallo stare alle catene di montaggio delle varie Dinamo o Lokomotiv, purchè seguano con diligenza e passione i consigli degli allenatori e le invocazioni dei tifosi.
    Da noi ogni anno scatta lo sdegno a comando per le follie del football, e con scadenza stagionale, la predica inizia coi primi seminaristi che annegano prendendo il bagno nel lago, con le fotografie di colonne di auto ferme sull’autostrada e con le cupe previsioni sul prossimo autunno caldo e l’inesorabile inverno freddo.
   Questa volta c’è stata anche la cifra che ha incoraggiato le chiacchiere, perché considerata esorbitante, ma non hanno tenuto conto della discesa della lira, e poi la destinazione del campione; se andava alla Juventus tutto bene, nessuno avrebbe parlato di cassa integrazione, delle coree e dei problemi degli immigrati.
   L’ingegnere Ferlaino non è né un dissipatore né un Pulcinella: è un freddo manager che si adegua alla realtà. Fa il suo mestiere molto bene. Non tocca a lui risolvere le secolari questioni sociali, realizzare le riforme e la giustizia: spaghetti, casa, un moderato lavoro, ma il suo compito è organizzare la migliore formazione degli “azzurri”. Non ha offeso la miseria, caso mai l’ha consolata.
   E poi, siamo onesti: Napoli non va male perché hanno comperato Savoldi, ma perché non possono vendere i Gava.
                                                                                                                      
Enzo Biagi

                   
 
 
                    Le cinque epoche di Corrado Ferlaino
                                                        di Mimmo Carratelli

     L’ingegnere Corrado Ferlaino è stato il più grande dei presidenti del Napoli. Presidente long-playing, sul trono azzurro per 33 anni, dal 1969 al 2002, da un giorno di gennaio a un giorno di febbraio, da Hamrin a Stellone, da Chiappella a De Canio, passando attraverso 26 allenatori, 14 direttori sportivi e 200 giocatori, vincendo 381 partite di campionato, 119 di Coppa Italia, 33 di Coppe europee, su un totale di 1370 partite, e due scudetti, due Coppe Italia, una Coppa Uefa e una Supercoppa italiana.
     Nella storia azzurra il suo nome brilla e offusca i due grandi presidenti del passato, Giorgio Ascarelli, che creò lo squadrone degli anni Trenta, e Achille Lauro, bene o male in sella alla tigre azzurra per 21 anni, più l’entusiasta ed elettrico Roberto Fiore, il presidente della squadra con Sivori e Altafini e del “boom” degli abbonamenti negli anni Sessanta.
     L’indagatore di astri Ciro Discepolo fece dell’Ingegnere un superbo e complesso ritratto astrologico. Un Toro con Luna e Ascendente, entrambi nel segno dei Gemelli, particolarmente sensibile ai transiti negativi di Saturno e, dunque, periodicamente soggetto all’influenza negativa degli stessi così che, secondo il venerato uomo delle stelle, doveva fare dei compleanni in luoghi mirati. Una volta, gli consigliò un viaggio a Tucson, in Arizona.
     Ferlaino è stato il Re Sole del Napoli, l’Ombra, Mandrake, Flash Gordon, il Precoce Saladino, la Primula azzurra. Denominato semplicemente: l’Ingegnere. Come il Re Sole regnò a lungo. Imprendibile come l’Ombra. Sorprendente nella vita e al calciomercato come Mandrake. Super-eroe come Flash Gordon, dominatore del caotico mondo del pallone. E Precoce Saladino, da subito conquistatore di territori edilizi e di una schiava bionda dominata su pelli di tigre nei piaceri dei sette libri del Kamasutra, come lei stessa rivelò. Primula azzurra sfuggendo a presidenti, cronisti, allenatori, procuratori, giocatori, amici e nemici.
     Entrò nel Napoli che aveva 37 anni e nove mesi, terzo presidente più giovane dell’epoca. Ne uscì a 71 anni. La sua “casistica” è ricca di numeri: 370 miliardi di incassi in 32 stagioni, le finte dimissioni del ’71 e dell’83, le quattro bombe incendiarie sotto casa, le cinque squalifiche per 16 mesi e 14 giorni complessivi, i tre matrimoni e i cinque figli.
    Nei momenti di relax, ci incontravamo a Capri, l’isola che ama, dove, sfuggendo alle ansie, alle furbizie e alle bugie da presidente del Napoli, un tormento dei taccuini azzurri, si lasciava andare e raccontava dei suoi piaceri veri, al di là di una “rabona” di Maradona. Da “Luigi” ai Faraglioni, raccontava con gusto le lontane scorribande a Marrakech, l’indimenticabile pellegrinaggio da Aqaba a Wadi Rum, fermandosi nella Valle della Luna sulle orme di Lawrence d’Arabia, la barriera corallina e il deserto di Sharm-el Sheik, località che fu tra i primi a scoprire, lo stupore davanti a Gerusalemme, i safari in Kenya, il viaggio in Uganda con la jeep che rimase senza benzina, il rocambolesco tour in Bolivia, il suo primo viaggio in due sole tappe da Napoli a Oslo su una Topolino dopo la licenza liceale, il naufragio scampato nel Golfo del Leone, la passione per Federico II e Carlo III.
    Al suk di Marrakech rubò ai venditori marocchini il segreto delle contrattazioni per proporle, pari pari, al calciomercato uscendo vittorioso da ingarbugliate trattative e gettando nella disperazione i contraenti come accadde, in forma clamorosa, con l’elegante manager del Milan Bruno Passalacqua fingendo di vendergli Juliano, con Romeo Anconetani, col presidente del Verona Saverio Garonzi stracciando il contratto dell’acquisto di Clerici già sottoscritto, col presidente del Bologna Luciano Conti col quale intavolò una trattativa persino drammatica per l’ingaggio di Savoldi.
   Un giorno spiattellò i migliori colpi della sua vita di presidente: “Maradona perché è stato il più caro e il più sofferto. Italo Allodi perché è stato il più lungo, dalla promessa di venire a Napoli fino al suo arrivo passarono dodici anni. Beppe Savoldi, l’acquisto più rapido e contrastato”.
    Patito dello scopone scientifico, che giocava con passione al tavolo di “eravamo quattro amici al bar”, lui, Giorgio Visocchi, Enrico Verga ed Enrico Del Vecchio, era un puntuale vincitore. Scaramantico senza confessarlo, custodiva nel suo studio, con i busti in bronzo di Ferdinando e Maria Carolina, corni di corallo e di argento, un Pulcinella col tipico sberleffo, un pupazzo con tanti spilli conficcati addosso e un Maradona di ceramica che ballava il tango con Van Basten piegando l’olandese, centravanti del Milan, nella classica figura del casché. Parlando dei Borbone si agitava. “Portano jella, sono perdenti”. Ma aggiungeva: “Non è nostalgia, ma amore per Napoli e la sua storia. Tengo il busto di Ferdinando anche se ha perso la guerra, e a me non piace perdere”. Aveva una cravatta segreta per le partite più importanti. Per il primo big-match della sua carriera di presidente, Napoli-Inter al “San Paolo”, promise 500 ceri a San Gennaro e, dopo che il Napoli vinse 3-1 (due gol di Canè), li fece recapitare alla basilica del santo alla Solfatara.
    Lo tormentava il pensiero di quattro dirigenti che erano morti da presidenti del Napoli, Ascarelli, Musollino, Gioacchino Lauro e Corcione, una maledizione azzurra evitata facendo molti scongiuri.
    Il 18 è il suo numero magico. Nasce il 18 maggio 1931, diventa presidente del Napoli il 18 gennaio 1969, vince il primo scudetto nel diciottesimo anno di presidenza. Si è sempre definito un po’ arabo e un po’ milanese, figlio birichino dell’ingegnere Modesto Ferlaino, calabrese di Nicastro trasferitosi a Napoli, grand’uomo e grande costruttore, e di Cesarina Pasquali, milanese. Studente al “Giambattista Vico” e al “Vincenzo Cuoco”, bravo in matematica e filosofia, un po’ asino all’Università, come confessò un giorno.
    Pilota di macchine veloci, vincendo con un sotterfugio il campionato granturismo 1963. Produttore di un film western con Lea Massari e di una pellicola su Che Guevara. Marito irrequieto e amante goloso. Fedele ai suoi tre cani, il lupo Tizio, l’alano Cornelia e Caio, due dei quali lo lasciarono troppo presto, rimanendogli la sola compagnia di Tizio.
    Ebbe cinque epoche nel Napoli. L’epoca di Chiappella dal ’69 al ’73 di ingresso e assestamento nel calcio. L’epoca della rivoluzione di Vinicio con apparizioni fulminee del “petisso” e di Giannino Di Marzio dal ’73 all’80. Il quieto periodo con Rino Marchesi dall’80 all’82. La tempesta degli anni dall’82 all’85. La stagione degli scudetti dall’85 al ’91. L’epoca post-maradoniana dal ’91 al ’94. Le annate del principio della fine dal ’94 al ’97. Gli anni del dissolvimento irrimediabile dal ’97 al 2002. Un giorno dettò la sua formazione ideale: Zoff; Bruscolotti, Vinyei; Colombari, Andreolo, Krol; Busani, Vojak, Vinicio, Maradona, Venditto.
    Prese il Napoli giocando in due colpi consecutivi l’armatore Achille Lauro e l’industriale Roberto Fiore. Era simpatico al Comandante che però ne diffidava: “’O guaglione nun è fesso. Vediamo come dobbiamo farlo fesso prima che sia lui a fare fessi noi”. Quella volta Lauro non ci prese.
    Se ne andò dal Napoli, al tempo di Giorgio Corbelli, bresciano, venditore di tappeti persiani tramite la tv, piombato nel golfo per affondare il Napoli, fra equivoci, presunzione e una carcerazione improvvisa, e per la impossibile convivenza con l’Ingegnere. Se ne andò in un pomeriggio azzurro e triste percorrendo in discesa il viale di Soccavo a bordo della Nissan, e in un bell’abito Caraceni. Quello fu il suo Sunset Boulevard. Tramontò un’epoca convulsa e felice. Mi pare fosse un martedì, il 12 febbraio 2002.
                                                                                                     Mimmo Carratelli

Nelle foto: in alto, Maradona consegna la Coppa Uefa a Ferlaino; al centro, Ferlaino e Corbelli festeggiano sotto la doccia la promozione in A nel 2000.
                                                                                  
                                                                                      

I DIRETTORI SPORTIVI NELLA STORIA DEL NAPOLI

Gli ingegneri del calcio


Da Montanari a Marino, vita e miracoli degli uomini che hanno "costruito" la squadra azzurra negli ultimi  50 anni.  Grande  Allodi

  
Nel calcio italiano il Direttore Sportivo ed ancor più il Direttore Generale sono ruoli di recente istituzione. Fino agli Anni Settanta non se ne sentiva il bisogno, nemmeno nei massimi campionati. I loro compiti erano ricoperti praticamente dai Presidenti, dagli allenatori e a volte anche dai segretari, come ad esempio Italo Allodi nella Juve. Ricordiamo ancora che Roberto Fiore era chiamato scherzosamente il presidente-tecnico. Completavano gli organici-standard delle società il medico sociale ed il massaggiatore (all’esterno si muovevano conoscitori o sedicenti tali del calcio che agivano come “osservatori” e scopritori di talenti. Col tempo si sarebbero trasformati in agenti, procuratori o dirigenti). Nessun altro. Dei Direttori Sportivi non c’era traccia, così come – ovviamente – non esistevano ancora i procuratori dei giocatori. I trasferimenti si realizzavano solo su iniziativa delle società. Senza intermediari ufficiali – solo mediatori poco tollerati - e senza nemmeno il consenso degli interessati. Non era ancora indispensabile la firma contestuale del giocatore. L’ingaggio veniva dopo, ed ai giocatori andava una percentuale sul prezzo di acquisto.
   Soltanto negli Anni Settanta, dicevamo, le squadre cominciarono ad avvalersi di personaggi, un po’ tecnici ed un po’ organizzatori, che affiancarono i presidenti in un’attività che stava diventando sempre più complessa e laboriosa. Di anno in anno gli organici delle società di calcio si sono così arricchiti, di pari passo con le esigenze organizzative dei sodalizi, tanto che nel Duemila agli storici ruoli ( presidente, allenatore, segretario, medico sociale e massaggiatore) si sono aggiunti qua e là l’amministratore delegato, il responsabile tecnico, il responsabile organizzativo e logistica, il team manager, il responsabile dell’area delle comunicazioni, l’addetto stampa, il segretario generale, il segretario sportivo, i collaboratori tecnici, i coordinatori sanitari, gli chief financial officer, il direttore vendite, i preparatori atletici, il responsabile del settore giovanile, l’allenatore dei portieri, gli allenatori della “primavera”,il consulente di mercato,il direttore dei servizi operativi, il direttore commerciale, il direttore editoriale, il responsabile del settore giovanile, i massofisioterapisti, i fisioterapisti, il direttore marketing, il direttore della pianificazione ed il controllo degli affari societari. E chi più ne ha più ne metta. (Nella foto, Italo Allodi al San Paolo)
  MONTANARI PER AIUTARE GIOACCHINO - Nel Napoli si evidenzia il primo Direttore Sportivo nella stagione 1967-68. Mentre sbiadiva l’immagine dell'ex presidente Roberto Fiore (passato per ripicca nei quadri dirigenziali della Lazio), Achille Lauro restava sempre come magna pars, stavolta a protezione del suo primogenito, divenuto presidente proprio per volontà del Comandante. E fu proprio sotto l’egida di Gioacchino Lauro, più spendaccione che austero amministratore, che arrivò a Napoli nel 1967 il primo Direttore Sportivo, il ragioniere bolognese Carlo Montanari ingaggiato  a supporto dell’inesperto presidente bambinone. Fu quello l’anno degli acquisti di Zoff, Barison, Pogliana. Ma l’esperienza fu di breve durata: nella stagione successiva, col Napoli in crisi economica, Montanari fu liquidato “perché costava troppo”. Del Direttore Sportivo non c’era più bisogno. Al mercato dell’hotel Gallia andava personalmente Gioacchino a comprare – si diceva – gambe maschili e femminili.
  L’EX INQUISITORE NON FU UTILE - Nella stagione 1969-70, il primo campionato di Ferlaino giovane presidente-padrone, ma anche subito ambizioso, nonostante i vuoti di cassa, il Napoli tornò ad ingaggiare un Direttore Sportivo e fu scelto, fior da fiore, l’avvocato Dario Angelini, ex temuto inquisitore della Federcalcio, un dirigente che Ferlaino pensava potesse essergli utile per le indubbie aderenze e come gran conoscitore delle “segrete cose”. Ferlaino lo giudicò - come fu scritto - “l’acquisto più utile” di quell’anno , ma poi lo ridusse a svolgere un ruolo marginale nella costruzione e nella cura della squadra. Angelini non fu molto attivo nel mercato azzurro. Venne piuttosto impioegato come consulente… fiscale, in una situazione societaria molto difficile. Per le altre iniziative il fresco presidente preferì fare da sé. Le studiò tutte per coinvolgere il popolo napoletano. Offrì posti numerati a buona parte degli abbonati, ipotizzò parcheggi riservati (ma non ci riuscì), rispolverò lo stemma di Ferdinando II di Borbone per applicarlo anche sui blocchetti di abbonamento e sulle divise sociali. Disse che bisognava ricordare agli italiani tutti che “poco più di cent’anni prima Napoli era capitale di un regno”, sorteggiò abbonamenti ogni volta che si risparmiava multe per i soliti mortaretti. Ma Angelini venne tenuto sempre in disparte. Tutte le idee scaturivano solo dalla vulcanica mente dell’ingegnere, molto attivo fin dai primi anni di presidenza. Ferlaino. dopo aver fatto fuoco e fiamme per ingaggiare Angelini,  lo ridimensionò. I maligni sostengono che pensava di ritrovare utili le qualità dell’ex inquisitore (che a suo tempo aveva indagato anche sul Napoli) nel caso ci fossero presentati guai con la giustizia sportiva. Ma ci fu soltanto la necessità di preparare una robusta difesa, quando durante un Napoli-Milan del 20 dicembre 1970, in pieno clima natalizio (divenne un’attenuante!) il rossonero Villa fu colpito da un razzo. sotto gli occhi di Rosario Lo Bello. Due a zero a tavolino (invece dell’1-0) e S. Paolo squalificato. E’ il caso di ricordare che Angelini “grande inquisitore” era subentrato ad un altro famoso “007” della Federazione, il conte Rognoni. In alcune edizioni del calcio-mercato (come già detto, era allora il noto Hotel Gallia) Rognoni a volte era solito travestirsi da frate per tentare di scoprire le magagne dei mediatori e cogliere sul fatto dirigenti squalificati. Angelini andò via dal Napoli nel 1972, dopo che Ferlaino si era reso conto che praticamente l’ex inquirente federale non era indispensabile, nonostante le tante pratiche ancora da evadere. Né Chiappella aveva bisogno di tutore.
 JANICH: NO AGLI INTRALLAZZI - Nel 1973-74, nella nuova sede in Via Crispi, si insediò poi come Direttore Generale, il friulano Franco Janich, (già difensore centrale di Atalanta, Lazio e Bologna, nonché della Nazionale) ed il Napoli, con gli acquisti di Clerici ed Orlandini, alla fine di una stagione storica si installò al terzo posto, guidato dal rivoluzionario Luis Vinicio. Janich restò a Napoli quattro stagioni. Ferlaino – come ricorda Giuseppe Pacileo – pretendeva da Janich correttezza e lealtà (e ne ebbe) nei confronti del Napoli, ma chiedeva anche intrallazzi a danno altrui. E qui Janich non accontentò l’ingegnere. Passò al Como, allenato da Rambone. Al posto di Janich, liquidato insieme con Pesaola, arrivò a Napoli nel 1977-78 Giorgio Vitali, general manager, dall’aspetto pacioccone, ingaggiato per i buoni risultati ottenuti nel Monza. Fin da maggio era stato tutto concluso. Prima storica decisione di quella stagione: l’allenatore Di Marzio, dopo un anno di permanenza sulla panchina azzurra, e Vitali, giudicarono non indispensabile capitan Juliano, invogliando Ferlaino a dargli la lista gratuita. Juliano scelse il Bologna di Pesaola, anche perché il suo ingaggio (120 milioni) era ritenuto insostenibile. Dopo sedici anni si ammainava così una bandiera. Arrivava però il successo nel campionato Primavera grazie ad un'altra famosa “bandiera” passata dal nerazzurro all’azzurro: Mariolino Corso. L’acquisto più indovinato in quel periodo fu quello del portiere Castellini, in rotta con Radice. (Nella foto, Franco Janich col presidente  Ferlaino)
  LA DIFFICILE CONVIVENZA CON JULIANO - Mentre Ferlaino, stanco anche di Vitali, dopo tre stagioni, falliva l’ingaggio del tandem Ramaccioni (direttore sportivo molto in auge) e Castagner (allenatore) entrambi protagonisti del miglior Perugia di ogni tempo, a Pasqua del 1980, a seguito di una crisi societaria, l’ingegnere chiamava a sorpresa  Antonio Juliano come Direttore Generale. Ma “Totonno” restò una sola stagione. All’insegna del motto “il Napoli sono io”, Juliano ottenne dall’accondiscendente Ferlaino la piena responsabilità del sodalizio ed un contratto triennale. Divenne anche azionista e poi consigliere, sembrava sul punto di diventare un nuovo Boniperti, l’uomo adatto per contrastare l’onda montante del malcontento popolare (quel furbo di Ferlaino!). La prima incrinatura si verificò con la conferma di Marchesi allenatore, che non andava d’accordo con l’ex capitano e stimava moltissimo invece il medico sociale Emilio Acampora. In compenso Juliano si rese protagonista dell’ingaggio di Rudy Krol, già pilastro del favoloso Ajax e tesserato in Canadà. Il Napoli ne trasse grande giovamento e alla fine si classificò terzo, dopo Juve e Roma. Ma nonostante l’ottimo piazzamento, il rapporto con Juliano si chiuse anzi tempo. Troppi screzi con la società, varie interferenze nel suo lavoro, addirittura un richiamo “a rispettare i suoi compiti istituzionali”. E fini tutto con le dimissioni. Sentendosi ingannato, Juliano sparò palle infuocate contro Corrado Ferlaino, che non era stato ai patti. (Nella foto,  Antonio Juliano con  l'allenatore Rino Marchesi)
  BONETTO PESCO’ DIAZ - Nella stagione 1981-82 il Napoli sostituiva Juliano col ritorno di Janich, quale coordinatore generale, ma a novembre firmava un contratto biennale di Direttore Generale con Beppe Bonetto, ex D.S. del Torino, il quale contribuì a screditare agli occhi di Ferlaino il suo predecessore Juliano, accusandolo di scorrettezza nella fallita trattativa per l’acquisto di Graziani, attaccante granata. Bonetto, legò il suo nome al laborioso acquisto di Ramon Diaz. Anni dopo, cioè nell’87, svolse un lavoro occasionale come consulente di Ferlaino e sbloccò - lo ricorda Franco Esposito, inviato de Il Mattino” in Brasile e memoria storica del Napoli - la difficile trattativa col San Paulo per Careca, dopo un’aspra discussione con il presidente Aidar, riportando in Italia la firma sotto il contratto già preparato dall’amministratore azzurro Giorgio Curti. Riprendiamo il filo: il rapporto biennale di Bonetto col Napoli si esaurì nell’83, con la salvezza ottenuta in extremis dal tandem Pesaola-Rambone. Ferlaino aveva passato la mano a Marino Brancaccio per la contestazione dei tifosi che rivolevano Juliano in società (ricordate il famoso aereo sul San Paolo? "Ferlaino via, Juliano torna!" era scritto sullo striscione volante) e Brancaccio, infatti, li accontentò, richiamando l'ex capitano. Ben presto, però, se ne sarebbe andato sbattendo la porta, lasciando così a Ferlaino l’eredità Juliano. L’ex capitano, da Direttore Generale, si trovò dunque di nuovo a lavorare nel 1983-84 con Ferlaino “nemico del giorno prima”. Ma si misero d’accordo di operare in piena concordia per il bene del Napoli. Juliano puntava ad ingaggiare Trapattoni per la panchina lasciata da Pesaola e Rambone, “nemici del giorno dopo”, e finì invece col doversi accontentare del modesto Piero Santin, ex Cavese, sostituito poi nel finale di campionato da Rino Marchesi, richiamato per acciuffare in extremis la salvezza. Nell’ 1984-85 il canto del cigno del dirigente Juliano, con l’acquisto di Maradona. L’iniziativa partì dal procuratore di Diego e la proposta giunse a Juliano da Avellino tramite Pierpaolo Marino. Il suo grande merito fu di costringere Ferlaino ad impegnarsi per l’acquisto. Cosa che l’ingegnere fece, trovando i soldi e muovendosi con la consueta astuzia. Fu il punto di partenza del grande Napoli degli scudetti e della Coppa Uefa.
  CON ALLODI L’ALBA DELLO SCUDETTO - Il contratto di Juliano era scaduto e Ferlaino nel 1985 coronò così il suo vecchio sogno di portare a Napoli Italo Allodi, uno che, per le sue esperienze nella Juve e soprattutto nell’Inter di Angelo Moratti ed Helenio Herrera, sapeva tutto di calcio e conosceva gli “uomini giusti”. Al suo fianco fu chiamato Pierpaolo Marino un operatore di mercato serio e competente. Allodi e Marino furono gli uomini che costruirono, pezzo dopo pezzo, il grande Napoli intorno a Maradona. In due anni arrivarono in azzurro - agli ordini dello spigoloso Bianchi, molto stimato da Allodi e Ferlaino - i vari De Napoli, Giordano, Carnevale, Garella (in rotta con l’allenatore del Verona, Bagnoli), Pecci, Renica e, in un secondo momento, lo sconosciuto Romano, pescato da Marino a Trieste e preferito al brasiliano Junior. Nell’anno dello scudetto, però, un grave malore nell’Hotel Royal, sul lungomare di Napoli, metteva sulla sedia a rotelle Italo Allodi. Invano si sperò in una pronta e completa ripresa della sua pur forte fibra.
  MOGGI, UN RUOLO COMPLICATO A NAPOLI - Ferlaino per difendere lo scudetto nell’87 assunse Luciano Moggi, già vice-capostazione di Civitavecchia, anche lui grande conoscitore di uomini e cose. Pierpaolo Marino, invece, rinunziò al rinnovo del contratto al fianco di Luciano: “I miei metodi sono diversi da quelli di Moggi”, disse, presago. A Torino, Moggi aveva operato bene per diversi anni, accattivandosi le amicizie di giornalisti, dirigenti ed anche arbitri. Durante la gestione Moggi furono acquistati Careca, Giuliani e Zola. Quindi il blitz a Madrid per ingaggiare Alemao, in forza all’Atletico Madrid, dopo un depistaggio dei giornalisti, invitati ad una inesistente cena. Ma la stampa fu più abile del furbo Luciano ed anticipò l’acquisto del brasiliano. Gli andò meglio quando scartò tutti con l’annuncio “Non prenderò mai Crippa dal Torino, è immaturo, non è da Napoli”. Tempo un’ora ed anche Crippa arrivò, però, a Napoli come Alemao. Lo accomunava al presidente la predilezione per le bugie. Dopo la felice esperienza napoletana Moggi fu ingaggiato dalla Juve, contribuendo ai suoi ripetuti trionfi, finiti poi nello scandalo di “calciopoli”, sotto l’accusa per aver favorito con le sue amicizie il cammino dorato dei bianconeri. Non risulta che a Napoli abbia esercitato pressioni per la squadra azzurra. Ma il suo lavoro in azzurro fu molto impegnativo, non solo nelle campagne acquisti, ma anche nel gestire e sanare i difficili rapporti con l’indisciplinato e capriccioso Maradona, per le impuntature dell’allenatore Bianchi e per certi criticabili comportamenti dei giocatori. Conquistato il secondo scudetto azzurro e finito il ciclo di Maradona (ormai coinvolto nella spirale della droga), Moggi, nel 1991, dopo quattro stagioni, fiutò l’aria irrespirabile e se ne tornò a Torino alla Juve. Il resto della sua storia è nota: la stanno ancora decifrando e scrivendo i magistrati. (Nella foto, Ferlaino e Moggi al San Paolo)
  ARRIVA UN NOBILE NEL NAPOLI, PERINETTI - Nel 1991, finito il ciclo Moggi, Ferlaino – sempre alle prese col suo famoso tira e molla alla guida della società – si affidò ad un Direttore Sportivo di nobile casato, scopritore di giovani talenti (come Totti), Giorgio Perinetti Casoni. Dopo aver preso il francese Blanc e lo svedese Thern, il nuovo D.T. trattò per il Napoli, ormai squattrinato, le grandi stelle europee: il croato Boksic, il bulgaro Stojckov del Barcellona e l’olandese Bergkhamp, con la mediazione di Raiola, ristoratore campano con locale ad Amsterdam e poi procuratore tra gli altri di Ibrahimovic e di Nedved. Il giovane Bergkhamp chiese di venire a Napoli con un altro olandese, individuato nell’attaccante Numan, esterno del Psv Eindhoven e della nazionale. Numan e la fidanzata vennero invitati da Perinetti anche a sondare l’ambiente napoletano e furono ospiti del Napoli per una settimana a Capri. Ma per mancanza di soldi finì tutto lì. Ferlaino stava trattando con Gallo la cessione del malridotto Napoli.
   Nel 1993 tornò a Napoli Ottavio Bianchi come Direttore Generale e con lui, sempre dalla Roma, Carlo Jacomuzzi, novarese, ex centravanti del Torino e del Taranto. Bianchi a Roma era allenatore, Jacomuzzi direttore sportivo. Non figurava certamente nel clan di Moggi. A Napoli lavorò con i Gallo e con Lippi e poi con Boskov allenatori. Grande conoscitore del calcio europeo, fu uno degli artefici dell’arrivo di Boghossian e del brasiliano Cruz.
  IL CICLO PAVARESE - Nel 1995, cominciò nel Napoli il ciclo di Luigi Pavarese, interrotto solo nel 1998 dalla parentesi Juliano e dalla fugace apparizione di Grillo, ex ferroviere, una vita nel calcio, puteolano, gran conoscitore di giovani. Già a Napoli come aiutante di Marino al tempo di Italo Allodi (in Campania aveva giocato come mediano nel Gladiator), era anche aiutante di Lievore, esperto di carte federali e regolamenti, nello staff del primo scudetto. Tre stagioni dal ‘95 al ’98, fino alla retrocessione del Napoli in B (quello dei quattro allenatori). Auspice Moggi, Pavarese tornò a Napoli nella stagione 1999-2000, con la riconquista della Serie A, allenatore Novellino. Confermato nella stagione successiva, tentò invano di evitare l’arrivo di Zeman e poi favorì l’ingaggio di Mondonico, col quale aveva lavorato a Torino. Fu lo scopritore del brasiliano Amauri e del ceco Jankulowski, ma nella sua gestione figurarono anche molte delusioni, non ultima Edmundo, “o animal”.
  DA MARCHETTI A PIERPAOLO MARINO - Nel 2002, col Napoli ancora in B, arrivò di passaggio Gianpietro Marchetti. C’era Naldi presidente-proprietario con Franco Colomba allenatore. Marchetti lasciò in anticipo il Napoli, senza gloria, all’inizio dell’inverno. Fin troppo discreto, schivo. Sfortunata la sua esperienza a Napoli favorita dalle buone parole spese per lui da un giovane giornalista napoletano residente in Emilia e amico della famiglia Naldi. Aveva vinto lo sprint con il reggino Martino. Ma il sogno di Naldi, che nel 2003 era stato costretto a ripiegare su Perinetti, era Pierpaolo Marino, allora legato all’Udinese. Naldi non ebbe il tempo di rimediare. Dopo tutti i suoi errori, arrivò il fallimento e l’uscita ingloriosa dal Calcio Napoli.
   Pierpaolo Marino giunse, anzi ritornò, a Napoli al momento della ricostruzione, al fianco di Aurelio De Laurentiis. Una coppia ben assortita ed egemone, col ritorno del Napoli in soli tre anni dalla Serie C alla A. Uomo di piena fiducia del presidente, vero factotum della società e protagonista del rilancio, con indovinate compagne acquisti. Pierpaolo Marino, studi in giurisprudenza non terminati, fu arbitro e poi telecronista delle partite dell’Avellino. Approdò nella società irpina, all’epoca di Antonio Sibilia presidente, come collaboratore nella segreteria guidata da Alfonso Carpenito. A Napoli, come già detto,  fu una preziosa spalla di Italo Allodi nella costruzione della squadra dello scudetto. Poi con l’arrivo di Moggi preferì andar via. Lavorò nella Roma dove non lasciò grandi tracce, quindi divenne dirigente e presidente dell’Avellino, infine Direttore Sportivo del Pescara, prima di assurgere al ruolo di plenipotenziario del presidente Pozzo nell’Udinese e da qui al Napoli. (Nella foto, Marino ieri e oggi: nel 1981 D.S. con Allodi e poi nel 2007 Direttore Generale)