Un romanzo lungo cent'anni
di Romolo Acampora
In
principio fu il Naples
Era
l'anno di grazia 1904, il Naples Cricket and Football Club - nato
come sezione del Circolo Canottieri Italia - muoveva i primi passi
sul Campo di Marte, dalle parti di Capodichino. Sulle cronache
cittadine nel racconto delle sue gesta trovavano più spazio i
merletti mondani ("Notate la marchesa Cutinelli e la figliola,
madame Guidat Durreye con la graziosa figliola, la viscontessa de
Melissand... e la più assidua a bordo campo... la duchessa Paduli")
che i dettagli tecnici degli incontri fra i rampolli annoiati della
nobiltà e della borghesia cittadina, i signorini Scarfoglio (Michele
e Paolo, che il fondatore de Il Mattino aveva avuto da donna Matilde
Serao), Giolino, Bayon, Treves... In porta, Michele Conforti se la
prendeva comoda; portava tra i pali una sedia e, quando l'azione si
svolgeva nell'altra metà campo, si accomodava tranquillo e scambiava
quattro chiacchiere con chi seguiva l'avvenimento nei pressi.
La maglia era blu e celeste, il presidente Luigi Salsi, imprenditore
edile di origini emiliane. Di questa preistoria incerta e
controversa restano racconti di campi polverosi, trasferte
avventurose ed una data: il 16 aprile 1910 il Naples in trasferta a
Palermo sconfigge la squadra locale per 2-1 e conquista il Lypton
Trophy. Per dare enfasi internazionale all'impresa un cronista un
po' avventato trasformerà in maltesi i calciatori palermitani. Nella
capitale della tazzulella 'e cafè arriva il primo trofeo calcistico
messo in palio, ma guarda un po' tu, dal magnate del the.
Sbarcato all'Immacolatella con i marinai dei bastimenti inglesi alla
fine del secolo precedente, andato in scena tra l'indifferenza
generale al Mandracchio, divenuto passatempo degli altoborghesi
cacciatori di mode, il calcio si trasforma nel volgere di brevi anni
in fenomeno popolare. E spesso la cronaca da rosa diventa nera con
episodi di scazzottate prima, poi risse ed invasioni di campo. Sulla
scena, si fa per dire, cittadina il Naples non era solo; esistevano
la Sportiva Napoli, la Juventus, la Robur, la Ginnastica Partenopea;
oltre la grotta di Mergellina, la Bagnolese.
Mentre al Nord il
passatempo di moda diventò presto una disciplina sportiva, a Napoli
per lunghi anni continuò ad essere un passatempo. Per cui se due o
tre giocatori litigavano con il resto della comitiva, non ci
pensavano su due volte per fondare un'altra squadra, tutta propria.
Nel 1911 alcuni soci si staccarono dal Naples e fondarono
l'Internazionale, maglia blu notte, primo presidente Luigi Stolte,
che aveva provocato la scissione con Ettore Bayon, Paolo Scarfoglio,
lo svizzero Hasso Steinegger, Adolfo Reichlin proprietario delle
Cotoniere Meridionali, Augusto Barbati. L'Internazionale fece le
cose il grande: arrivarono calciatori stranieri (Ostermann, Little,
Kock, Flowes) e costruì un proprio campo di giuoco ad Agnano,
recitandolo con un muro. Per la prima volta gli spettatori furono
costretti a pagare un biglietto d'ingresso, costo cinquanta
centesimi.
Napoli spendeva gli spiccioli rimasti di un'Arcadia perduta.
Impazzavano il cinematografo e le sciantose del varietà, l'onore era
reclamato e lavato a suon di duelli, nel porto veniva stipata sui
bastimenti un'umanità dolorante. Superficiale, la città prese ad
appassionarsi a questo nuovo giuoco. La prima sfida tra Naples ed
Internazionale, ai campionati regionali del 1912, fu epica. Furono
necessarie cinque partite. All'andata vinse l'Internazionale, il
ritorno fu appannaggio del Naples. Fu necessaria una bella. Alla
presenza di ben (!) trecento spettatori, arbitro il torinese Armanni.
Alla fine era pareggio, quindi supplementari ad oltranza. Dopo due
ore e ventuno minuti era ancora 1-1 ed era ormai buio. La domenica
successiva nuova partita e nuovo pareggio, 2-2. Al quinto tentativo
l'Internazionale battè il Naples. C'erano volute nove ore. Nella
foto, in alto il Naples 1911 e al centro il
gagliardetto del Napoli 1926
Attila
Sallustro, il primo idolo
Battagliavano
ancora, Naples ed Internazionale, quando scoppiò la guerra; anzi la
Grande Guerra. Nelle trincee in riva al Piave resterà per sempre
Valle, un ragazzo del Naples. In città scendevano in campo i
riformati, contro formazioni dei calciatori-soldati del distretto
militare o delle navi alla fonda. Il calcio ormai stava per
diventare il passatempo preferito degli italiani, sempre più
giocato, visto, chiacchierato. Quasi a volersi prendere una
rivincita su paure, distruzioni, lutti, alla fine della guerra fu
un'esplosione di squadre: un oriundo sudamericano aprì un bar nella
Galleria Umberto e fondò una squadra con il nome del proprio locale,
Brasiliano; nacquero la Juventus, la Pro Napoli, la Libertas. Ma i
club più popolari erano sempre Naples ed Internazionale, anche se
quasi puntualmente battute da formazioni provinciali. I bilanci
disastrati, il Naples della Pignasecca e l'Internazionale di via
Medina si fusero per diventare Internaples (1922). La proposta -
pare, ma gli Erodoto della materia sul dato sono in disaccordo- fu
di Giorgio Ascarelli, anche se il primo presidente del nuovo club fu
Emilio Reale.
La divisa di giuoco, maglietta azzurra con risvolti celesti.
Continuarono le stagioni di puntuali sconfitte contro Puteolana,
Savoia, Bagnolese, Cavese per la squadra che aveva nel suo
gagliardetto l'emblema cittadino del cavallo; ed al bar Brasiliano,
ritrovo di sconfortati sostenitori, quattro anni più tardi risuonerà
con ironia tutta partenopea la battuta che della squadra segnerà la
storia ed il destino: chisto pare 'o ciuccio 'e fechella, trentaseie chiaje e 'a coda fraceta.
Le delusioni non spengono mai le passioni. Giorgio Ascarelli,
assurto alla presidenza, impresse una prima svolta alla filosofia
societaria sollecitando l'inserimento del diciassettenne astro
nascente Attila Sallustro accanto ai suoi grandi acquisti, l'ex
nazionale Carcano, giocatore-allenatore, ed una mezzala destinata ad
una luminosa carriera, Giuanin Ferrari; lautamente pagati loro due.
Nel 1926 con il primo campionato a carattere nazionale nacque, il
primo agosto, l'Associazione Calcio Napoli. Non sarà una stagione
esaltante: nemmeno una vittoria, ultimo in classifica e retrocesso,
ma salvato d'autorità dalla Figc. Il primo presidente era stato,
naturalmente, il vulcanico Giorgio Ascarelli. Ricco industriale,
ebreo, prima di morire quattro estati più tardi trovò il tempo per
regalare al Napoli (a proprie spese) il suo primo vero stadio ed il
suo primo vero allenatore, William Garbutt.
Vennero gli anni della scapigliatura. Era il 1930. Napoli impazziva
per Attila Sallustro e per Lidia Johnson, vedette delle Folies
Bergeres. Una domenica Attila andò al Teatro Nuovo e si accomodò in
un palco. Il pubblico scattò in piedi e gli tributò un'ovazione,
interrompendo lo spettacolo. Al termine, nei camerini, la Johnson
presentò al campione la figlia Elena, sedicenne ballerina di fila.
Aveva come nome d'arte Lucy D'Albert e misure mozzafiato: 94, 62,
94. Tra il re dello stadio e la prossima regina del palcoscenico
nacque qualcosa. Napoli aveva anticipato quasi di un secolo il
costume. Nella foto, Sallustro con la moglie Lucy d’Albert.
Con
Garbutt, Napoli "grande"
Il 23
febbraio 1930, sette mesi dopo l'inizio dei lavori, fu inaugurato lo
stadio regalato alla città da Giorgio Ascarelli, napoletano del
Pendino. Era di scena la temibile Juventus di Combi, Mortarotti,
Caligaris, Varglien, Viola, Bigatto, Barale, Zanni, Munerati,
Cesarini, Orsi. In maglia azzurra Cavanna, Vincenzi, Innocenti, De
Martino, Roggia, Zoccola, Perani, Vojak, Sallustro, Mihalic,
Buscaglia. Finì due a due, reti di Munerati ed Orsi, doppietta di
Buscaglia. Diciassette giorni più tardi, all'alba del 12 marzo, una
peritonite fulminante stroncò Giorgio Ascarelli. La città gli
tributò un funerale memorabile, la squadra gli dedicò un pareggio
per due a due la domenica successiva sul campo del Milan. Sull'onda
dell'emozione venne intitolato a lui il suo stadio; salvo a
ribattezzarlo Partenopeo qualche anno più tardi, ampliato e
rimodernato: sarebbe stato onorato dalla presenza di Hitler, e se
qualcuno, non si sa mai, gli avesse raccontato che lo stadio era
intitolato ad un ebreo...
Ascarelli aveva gettato fondamenta solide, il pilastro principale
era mister Garbutt; con lui in cinque anni il Napoli su 200 partite
ne vinse quasi la metà, 92, pareggiandone 42. Alla presidenza si
accomodò il duca Giovanni Maresca di Serracapriola. E non badò a
spese. Dal Torino arrivò Enrico Colombari, mediano di ferro ma dal
carattere impossibile. Era costato 250mila lire. Dalla radio una
canzone faceva sognare gli italiani. "Se potessi avere mille lire al
mese...". I napoletani già fantasticavano sfracelli, ma non avevano
perso il senso dell'ironia. La prima volta che Colombari, perso
l'equilibrio, finì a terra, dalle tribune si levò il lazzo mordace:
è caduto 'o banco 'e Napule!
Sallustro andò militare, a tenere in piedi la baracca furono i gol
del fiumano di ferro Vojak. Lontano dalla zona scudetto, il Napoli
-pur tra debiti, rivolte della squadra, episodi boccacceschi in
ritiro- riusciva a resistere nella zona alta della classifica e a
nutrire sogni di trionfi internazionali. In Coppa Europa potrebbe
centrare l'obiettivo; contro gli austriaci dell'Admira arriva alla
terza partita ma sul campo neutro di Zurigo crolla clamorosamente
per 5 a 0. Accusato di scarso impegno a Sallustro toccarono 2.500
lire di multa e la perdita della fascia di capitano. Offeso per le
allusioni alla sua vita privata ('a russa, Lucy D'Albert,
considerata la causa dello scadimento di forma) al termine di un
furibondo litigio con il presidente dell'epoca, Luigi Savarese,
sbatterà la porta e per due mesi non si farà vedere sul campo
d'allenamento.
Ormai il bel giocattolo era irrimediabilmente rotto. Ed entrò in
crisi anche l'imperturbabile Garbutt, arrivato a Napoli con la
segreta speranza di ripetere all'ombra del Vesuvio le imprese di
Genova, dove aveva vinto tre scudetti. Quella stagione si concluse
malinconicamente con un settimo posto che concluse l'era-Garbutt.
Salì su un treno, direzione Bilbao. Qualcuno disse di averlo visto
piangere. Morto da tempo Ascarelli, via lui, era la fine del primo
Napoli da rispettare. Nella foto, Cavanna e Vincenzi due
pilastri del Napoli di Garbutt.
Lauro non poteva dire di no al Fascismo
A Palazzo Venezia c'era una
finestra sempre illuminata, anche di notte, Lui lavorava per le
magnifiche sorti e progressive dell'Italietta. Lavorò anche per il
calcio, in cinquant'anni diventato un fenomeno nazional-popolare,
quindi da controllare, indirizzare, sfruttare come tutto il resto
del Belpaese.
Mussolini fece indossare la camicia nera anche a quel divertimento
inventato dalla perfida Albione. E lo fece con due innovazioni
fondamentali. I calciatori diventarono proprietà delle società per
cui erano tesserati e la cifra pattuita per il loro trasferimento
doveva essere depositata, in contanti, in un ufficio federale in
maniera da impedire gli indebitamenti per potenziare le squadre. Già
allora, ma lo era stato quasi da subito, il calcio produceva
soltanto deficit.
Il Napoli, quanto a debiti, era tra le società prime in classifica.
Per cui nella seconda metà del 1935 dovendosi risollevare le sorti
di club e squadra venne imposto a facoltosi imprenditori l'ingresso
nel consiglio direttivo. Fece il suo ingresso sulla scena di Napoli
e del Napoli un sorrentino che da mozzo s'era fatto armatore. Sei
mesi più tardi (15 marzo 1936) il federale della città dirà ad
Achille Lauro: "Sono chiamato in Africa dal mio dovere d'italiano e
di fascista. Ti manderò una mia creatura, prendine cura".
Tornato a casa, Lauro comunicò a donna Angelina che bisognava
attrezzare una stanza per un nuovo ospite. La mattina successiva nel
suo ufficio si presentò il vice-federale con i libri contabili ed i
debiti del Napoli: 266mila lire. Non era impresa da scoraggiare uno
come lui, abituato ad attraversare le tempeste di tutti gli oceani
ed a riportare sempre a casa la pellaccia.
Al fascismo, che gli aveva permesso di ingrandire la flotta ed era
il suo miglior cliente, non poteva dire di no. Lo avrebbe fatto alla
sua maniera, rimettendoci il meno possibile: 190mila lire furono
ricavate dalle cessioni di Ferraris II e di Busoni, 60mila lire
dovette rimettercele, invece, di tasca propria.
La squadra fu rivoluzionata ma riuscì ad evitare per un pelo la
retrocessione: finì quart'ultima. Ed allora, via con un'altra
rivoluzione; portò in maglia azzurra un triestino che avrebbe
lasciato un segno nella storia del calcio non soltanto italiano,
Nereo Rocco, il futuro "paron" che negli ultimi anni dell'esistenza
nella ventosa casa triestina ricorderà ancora con nostalgia gli anni
vissuti al Vomero, il tenace Mian ed il terrificante Pretto.
Ad ogni fine di campionato le recriminazioni superavano, però, le
soddisfazioni; e Lauro, imperterrito, continuava a rivoltare la
squadra, il Napoli era come un grand hotel, chi parte e chi arriva.
La stagione '39 -'40 fu al vero brivido: salvezza raggiunta
all'ultima giornata addirittura per soli sette centesimi di punto
nel quoziente reti!
Il 10 giugno 1940 all'oceanico gregge festante fu partecipato
l'ingresso in guerra. Cinque giorni più tardi Lauro lascerà la
presidenza all'ing. Gaetano Del Pezzo: doveva badare alla "sua"
creatura, la flotta, con incrociatori e sommergibili nemici nel
Mediterraneo non si annunciavano giorni sereni. La prima era-Lauro
non lascerà tracce gloriose nel palmares societario ma una
stupefacente novità nel libri contabili, il bilancio in pareggio.
Nella foto, Lauro sul campo si ripara dalla pioggia con un
fazzoletto annodato in testa.
La
difficile rinascita nel dopoguerra
Furono
anni di lutti e distruzioni, Napoli ed il suo porto erano al centro
dei raid compiuti dagli aerei inglesi partiti dalla base maltese;
più tardi si aggiungeranno quelli americani, e non sarà un miglior
affare. Sui muri c'erano gli slogan: credere, obbedire, combattere.
I napoletani - nel nostro caso calciatori e tifosi - fecero finta
che niente stesse accadendo per non guadagnarsi la scomoda etichetta
di disfattisti ed a modo loro credettero, obbedirono e combatterono.
Furono sconfitti anch'essi. Nuovo presidente, dopo la minaccia della
FIGC di escludere il Napoli dal campionato per morosità, era il
federale in persona, il conte Tommaso Leonetti; avrà la dignità (o
l'accortezza?) di dimettersi dopo tredici mesi (19 ottobre 1941).
L'onta della prima retrocessione in serie B toccherà così
all'ennesimo commissario della società, il malcapitato Luigi
Piscitelli.
Si continuava a giocare, ma per imposizione più che per gioco. La
notte passata nei ricoveri, il giorno impegnati ad inventarsi come
superare le restrizioni delle tessere annonarie i napoletani non
potevano certo trarre conforto dai risultati della loro squadra; il
decisivo scontro-promozione con il Modena nell'ultima giornata di
campionato andò in scena al Vomero, i bombardamenti s'erano accaniti
anche sullo stadio Partenopeo rendendolo inagibile. A due minuti dal
termine il modenese Eliani in contropiede uccellerà con un
pallonetto Chery Sentimenti uscito fuori dai pali. Sconfitta, ed
addio ritorno in A.
L'Italia divisa in due, gli alleati sbarcati in Sicilia il 9
settembre '43, il fascismo caduto, era scomparso anche il campionato
unico sostituito da tornei a carattere regionale. A Napoli erano
iniziati i rastrellamenti dei tedeschi, la città risponderà con le
"Quattro giornate". Sullo sfondo, il bagliore del Vesuvio che
partecipa alla sua maniera prima di cadere in profondo letargo.
Com'era Napoli, passata 'a nuttata? 232.420 vani distrutti o
inabitabili, 22mila civili morti, l'economia annientata, niente gas,
niente luce, la fila alle fontanine per l'acqua; per le strade
segnorine e sciuscià, ordinarie scene da "pelle" malapartiana.
Eduardo De Filippo intanto aveva scritto "Napoli milionaria", sarà
rappresentata per la prima volta il 26 marzo 1945 al Teatro di San
Carlo; il suo dolente messaggio di speranza era naturalmente valido
anche per vicende cittadine del pallone. Al bar Pippone, in via
Santa Brigida, s'era infatti ripreso a parlare di calcio già l'anno
prima.
A maggio era nata, per iniziativa del giornalista Arturo Collana, la
Società Sportiva Napoli; il 1 giugno la Società Polisportiva Napoli,
auspice Gigino Scuotto, uno dei più abili dirigenti mai nati a
Napoli, artefice di miracoli di cui non si potrà mai vantare in
pubblico. Dopo lunghe trattative i due sodalizi, il 19 gennaio
dell'anno successivo, si fusero nell'Associazione Polisportiva
Napoli; presidente, per un mese e due giorni, proprio Gigino Scuotto
ben lieto di cedere l'incombenza all'ing. Savarese e di occuparsi,
quale suo vice, di cose concrete, come il reperimento di un campo
per partecipare al campionato regionale. Inagibile l'ex Ascarelli,
requisito dagli alleati il Vomero, riuscì a farne allestire uno alla
bell'e meglio all'interno dell'Orto Botanico a via Foria. Nella
foto, una coda per l'acqua a Napoli, in Piazza del Plebiscito,
durante la guerra.
Da
Monzeglio alla coppia Jeppson-Vinicio
E rano
i giorni delle am-lire, della polvere di piselli, del "re di
Poggioreale" che riportava in Duomo il tesoro di S.Gennaro, del "re
di maggio" in partenza per l'esilio a Cascais perché l'Italia aveva
scelto la repubblica (Napoli, in controtendenza, si esprimerà per la
monarchia), di 417 ragazze imbarcate sulla "nave delle spose" in
viaggio verso il matrimonio con altrettanti paisani.
Dopo una scialba stagione vivacchiata nel campionato regionale
(1945), e la partecipazione al campionato misto del Centro-Sud
('45-'46) con una squadra costata 7 milioni, il Napoli di Andreolo,
Lustha, Rosi e Barbieri conquisterà la A e una nuova denominazione
sociale: il 20 febbraio '47 riecco l'Associazione Calcio Napoli di
ascarelliana memoria. In scena comprimari più che prim'attori. Alla
prima stagione nel tentativo di salvare l'annata tenteranno di
comprare una partita a Bologna. Processo per corruzione e
retrocessione per stabilire, l'anno dopo, un altro primato
tragicomico: l'affidamento dei pieni poteri a Domenico Mattioli, il
presidente della rivale Salernitana militante nello stesso torneo!
Egidio Musollino, presidente con Scuotto vice, capì la lezione e
decise di assumere l'allenatore della Pro Sesto, un ex campione del
mondo: Eraldo Monzeglio. Dai tempi di Garbutt non era arrivato a
Napoli un uomo capace di guidare con mano ferma un ambiente così
vulcanico; più tardi sospirerà: "qui non avrete mai niente di
buono". Fu promozione al primo tentativo e forse sarebbe stato
l'inizio di un ciclo vincente se all'alba del 22 febbraio 1951,
svegliato dall'incendio del ristorante D'Angelo su cui si affacciava
la sua abitazione, Musollino non fosse stato stroncato da un
infarto. La successiva diarchia Cuomo-Scuotto portò contrasti e
niente quattrini. Si bussò alla porta di Achille Lauro; l'8 agosto
accettò la presidenza onoraria, il 29 aprile dell'anno successivo
pagherà parte dei debiti e, messa in liquidazione la vecchia
A.C.Napoli, darà vita ad un altro sodalizio con la medesima
denominazione sociale di cui era il maggior azionista. Come se 11
fossero stati un brutto sogno. Era sopravvissuto alla guerra, al
confino, alla distruzione della flotta. Era di nuovo 'o comandante e
la sua storia personale sarà, per sua volontà stavolta, intrecciata
a quella del Napoli. "Per un grande Napoli ed una grande Napoli vota
Lauro" fece scrivere anni dopo sui palazzi della città. E Napoli gli
regalò 300mila voti e Palazzo S.Giacomo. In contraccambio ebbe
Jeppson, pagato 105 milioni, e Bugatti, e poi Vinicio.
Nessuno sembrava in grado di contrastarlo, tranne Monzeglio, capace
di metterlo alla porta degli spogliatoi dove s'era presentato con un
codazzo di cortigiani. Il clima da basso impero, le trame di Amadei,
metteranno fine alla prima stagione napoletana del galantuomo don
Eraldo. L'interregno di Frossi durerà 4 giornate, poi Amadei in
panchina. Invano esporranno uno striscione: vendetevi l'anima, ma
non Vinicio. Amadei nel '60 fece vendere Vinicio ed acquistare
Pivatelli, Baldi, Gratton; nel corso della stagione gli affiancarono
come dt un mito, Renato Cesarini. Fu B. L'anno successivo Pesaola
conquisterà la promozione (e la prima Coppa Italia del club),
nonostante una storia di corruzione liquidata con la squalifica di
personaggi minori. Poi di nuovo una retrocessione ed un altro anno
di purgatorio. Fino all'ennesima rivoluzione societaria. Nella
foto, Jeppson e Vinicio.
Il colpo
di Fiore: Sivori e Altafini
N ella
stagione precedente era stato stabilito un altro primato: il Napoli
s'era fatto beccare con le mani nel sacco al controllo antidoping
appena istituito; un cocktail di simpamina e caffeina. Michelangelo
Beato, una vita a far massaggi ed ascoltare mugugni, pensò che i
giudici l'avrebbero bevuta: tutta colpa del mio caffè, troppo
ristretto. L'abilità di Scuotto limitò i danni alla squalifica per
un mese inflitta a quattro calciatori. Ma le ragioni del crollo
erano altrove; conduzione societaria inadeguata, mezzi finanziari
ancor più carenti. Lauro si dimise. Ma non uscì dalla scena,
tenacemente abbarbicato al proprio mito. La flotta non era più una
miniera d'oro, il boom del trasporto aereo la rendeva superata. In
aprile la crisi comunale portò a palazzo San Giacomo un commissario
prefettizio, alle amministrative di ottobre i monarchici laurini
saranno sorpassati dai democristiani. L'autunno del patriarca
volgeva già all'inverno.
Il vecchio leone continuava a battersi, il Napoli non intendeva
mollarlo, ad onta del pauroso deficit finanziario. Ci volevano
quattrini freschi, Lauro a suo dire già creditore di 480 milioni non
intendeva sborsarli. Si formarono due cordate per rilevare l'A.C.
Napoli in liquidazione. Il comandante, con collaudata abilità, mise
gli uni contro gli altri, poi scelse la soluzione che gli sembrò più
conveniente per i suoi interessi e le sue ambizioni. Il 25 luglio
1964, con atto del notaio Monda, nacque la S.S.C. Napoli SpA;
capitale sociale 120 milioni di cui 80 effettivamente versati. Lauro
per rinunciare al suo credito ebbe il 40% del pacchetto azionario;
il 21% andò a Roberto Fiore, da poco entrato a far parte della vasta
schiera dirigenziale, il 30% ad Antonio Corcione che mandato a
corrompere il portiere veronese Ciceri s'era fatto carico di tutte
le colpe del tentato illecito e della conseguente squalifica.
Eletto presidente, Fiore richiamò Pesaola e l'ultima giornata di
campionato sancì (vittoria sul campo del Parma già retrocesso) il
ritorno in serie A. Quel traguardo fu un trampolino dal quale Fiore
spiccò il volo: ahilui, troppo in alto, e fece la fine di Icaro.
Fiore gongolava quando la sua corte lo definiva "presidente
tecnico". In effetti, profondo conoscitore di Napoli, era un abile
organizzatore di spettacoli calcistici. I consigli tecnici erano di
Pesaola, lui se ne prendeva i meriti. Allestì una campagna acquisti
faraonica, puntando su campioni collaudati da mettere al fianco di
Antonio Juliano, di Enzo Montefusco, di Faustinho Canè. Andò al
Gallia e dal presidente milanista Riva ebbe per 270 milioni Josè
Altafini già promesso da Viani alla Juve per 300 milioni. Poi seppe
(dal solito Pesaola) che Sivori, in rotta con Heriberto Herrera,
doveva essere ceduto al Varese. Sivori valeva 300 milioni, come
acquistarlo? Chiese aiuto al comandante. Lauro telefonò ad Agnelli e
s'accordarono: la flotta comprava i motori per l'Achille Lauro e
l'Angelina Lauro, le sue nuove ammiraglie, Sivori veniva ceduto al
Napoli per 90 milioni, pagamento biennale. Altafini arrivò in aereo
e la pista di Capodichino fu invasa dai tifosi; Omar scelse il treno.
Alla stazione di Mergellina ad accogliere il più estroso degli
angeles de la cara tinta erano in diecimila. Nella
campagna-abbonamenti Fiore contò 800 milioni. Nella foto, il trio
d’attacco del Napoli: Sivori, Altafini e Canè.
La breve parentesi di Gioacchino
F u
un'annata di sbornie colossali. Juve al San Paolo, gol vincente di
Altafini ed il "cabezon" ad allacciarsi la scarpetta nei pressi
della panchina dell'impassibile Heriberto per sputargli in faccia il
suo hjio de puta; pronto a restituire la cortesia al brasiliano,
missile vincente nella porta di Barluzzi. Josè ringraziò con
l'abbraccio di prammatica ma non aprì bocca. Il trionfo, l'estasi,
la popolarità non consigliarono prudenza a don Roberto; ormai si
sentiva il mondo in tasca, il terzo posto finale non era un
traguardo, vedeva inevitabilmente vicino lo scudetto, il primo
scudetto. Allora via con altri acquisti: lo Stiles bresciano Ottavio
Bianchi, il bullo delle notti romane Alberto Orlando, nei piani di
Pesaola l'ariete da mandare in area avversaria ad aprire varchi per
Altafini, che alle caviglie teneva. Record di abbonati, 69.344. Chi
impediva più a Fiore di considerare concreti i sogni?
Ma, nell'ombra, Jago era al lavoro. Qualcuno racconterà a Lauro di
stranezze nella regolarità dell'amministrazione societaria, il
comandante farà pubbliche allusioni, senza uno straccio di prova.
Racconteranno a Lauro anche che 'a chiattona allo stadio aveva
urlato "Robertììì, si' bello!". E no, questo no. L'ammirazione alla
virilità aveva da essere per lui soltanto. E poi, come s'era
permesso di accettare l'incarico federale di commissario per
uniformare lo statuto societario a quello predisposto dalla FIGC
senza chiedergli il permesso? Lavorato ai fianchi per settimane, con
Corcione passato dalla parte del comandante, Fiore fu costretto a
dimettersi. Lo farà il 27 dicembre con una lettera pubblica ai
tifosi; disconoscendo l'autorità del vecchio timoniere e
rivolgendosi direttamente al "popolo" dal quale credeva di aver
ricevuto l'investitura. Sognava, don Roberto. Sognava le dimissioni,
soltanto preannunciate, di Pesaola, l'ammutinamento della "sua"
squadra, la rivolta popolare.
Giusto per annusare l'aria il comandante non lo sostituì subito; la
società fu retta dal legale laurino Diamante, nominato commissario,
poi la consegnò al figlio Gioacchino, aduso a gonfiare le spese per
rimpinguare l'assegno mensile paterno e di affari come l'acquisto di
20mila galline ovaiole... Con il suo arrivo all'albergo Gallia lievitarono
tutti i prezzi, anche quelli delle mignotte. Il campionato s'era
chiuso al quarto posto, Gioacchino non badò a spese. Mancato
l'ingaggio di Giggirriva, dal Mantova arrivò il giovanissimo Zoff,
Altafini, con un consiglio non disinteressato di cui il tempo
s'incaricherà di svelare a tutti la ragione, aveva ottenuto
l'acquisto di Barison. Champagne per tutti, Porsche in regalo ai
calciatori più bravi; a Natale ed ai compleanni, gioielli alle
signore. Sarà secondo posto, ma sarà anche l'anticamera del
fallimento, con il messo dell'Esattoria comunale arrivato in sede
con un precetto di pignoramento per 15 milioni. Ed allora, via
Gioacchino. Alla presidenza Antonio Corcione, amministratore
delegato Roberto Fiore. Fiutata l'aria, Pesaola cambierà panchina
con Chiappella, andando a vincere lo scudetto a Firenze. Sei mesi a
regalare buste gonfie di biglietti omaggio; la presidenza Corcione
si concluse con il suo funerale. In arrivo l'addio di Sivori,
squalificato per sei giornate dopo una maxirissa nel corso di
Napoli-Juve ed il ciclone Ferlaino. Nella foto, il presidente
Gioacchino Lauro e Bandoni.
Irrompe
il ciclone Ferlaino
I n
quel castello dei Borgia ch'era ridiventato il Napoli dimostrò di
sentirsi a casa propria l'ultimo venuto. Sempre a caccia di
sprovveduti alleati-finanziatori Roberto Fiore aveva ceduto cinque
azioni ad uno sconosciuto costruttore edile; fu necessaria una
battaglia legale con Lauro, lo statuto non lo consentiva. Il
comandante alla fine lasciò perdere. Ma chi era questo Corrado
Ferlaino, poteva mai far paura a lui? Mal gliene incolse. A lui ed a
Fiore.
Entrato di soppiatto con quella sua aria indefinibile ed una storia
di strane leggende metropolitane alle spalle, Ferlaino alla fine
poteva essere definito, nel più benevolo dei casi, uno stravagante.
Era sfuggente; da lui non potevi prevedere mai da che parte sarebbe
arrivato il colpo mortale. Di soppiatto arrivò anche a casa Corcione,
facendo le scale a quattro per non farsi bruciare sul campo dai
fratelli Mercadante che s'erano serviti dell'ascensore per trattare
con la vedova del presidente l'acquisto del suo pacchetto azionario.
Sentì una frase: s'accomodi, ingegnere; era rivolta ai Mercadante,
costruttori, ma sprovvisti di laurea. Incuneò un piede nella porta
prima che fosse richiusa e proclamò: qui l'unico ingegnere sono io!
Vero; la laurea in ingegneria se l'era comprata, ma lui l'aveva sul
serio. I compratori chiusi in due stanze, il cognato della vedova
Corcione, Tardugno, faceva la spola. Al terzo rilancio, Ferlaino di
soppiatto chiuse a chiave la stanza dov'erano i Mercadante. Promise
a Tardugno di farlo diventare il suo braccio destro nel Napoli e
strappò una firma in calce all'accordo: 70 milioni per il 30% delle
azioni, valore nominale 36 milioni.
Fiore, che l'aveva inviato a chiudere la trattativa per depistare i
concorrenti, l'aspettava nel salotto di casa. Al suo arrivo, ed alla
notizia che tutto era andato per il meglio, iniziarono i
festeggiamenti; Fiore gongolava a sentir quell'appellativo
"presidente, presidente". Ferlaino gelò tutti : "Sì, presidente. I
soldi li ho cacciati io, il presidente lo faccio io". S'era
accordato con Lauro, azionista di riferimento col suo 40%. Il
comandante, sicuro di cucinarsi a dovere quel pivellino, lo chiamava
figlio mio... Il 18 gennaio 1969 fu eletto presidente, aveva 37 anni
e davanti un mare di problemi ed un posto nella storia. Non lo
sapeva. Gli avevano fatto credere che i debiti ammontavano a 598
milioni; alla prima ricognizione scoprì che il buco era più vicino
ai tre che ai due miliardi. Manco il tempo di ricevere le consegne e
dovette sborsare 300 milioni. Lauro, scoperto con quale incoscienza
si fosse tuffato nelle curve quel vincitore di Targa Florio, provò
ad irretire Fiore. Fu bruciato sul tempo. Pontiere il comune amico
Tullio Conte, convinse Fiore a vendergli il suo pacchetto azionario.
Don Roberto delegò lo zio a portare avanti la trattativa. Il suo 21%
di azioni, valore nominale 25 milioni e 250 mila lire, fu pagato 183
milioni.
Come il Comandante, Ferlaino ha legato la vita del Napoli alla sua,
talvolta utilizzando un'unica cassa. Ha assunto più volte la
presidenza, diversi allenatori; comprato molti giocatori, rischiato
il tutto per tutto per assicurarsi partite decisive quanto simpatie
arbitrali. Chiappella che tentò di far sbocciare una nuova
Fiorentina, Vinicio che praticò per primo un calcio-spettacolo e
sfiorò pure lo scudetto, Marchesi mai capace di mettere in pratica
la sua concretezza, Pesaola inseguito, conquistato, ripudiato; poi
Bianchi e Bigon, i vincenti. Accanto a lui i manager migliori: lo
scontroso Juliano, il fine Marino, il grande Allodi, il solfureo
Moggi. Ha litigato e fatto pace con tutto il calcio che contava,
lottato contro il mondo intero, la camorra. Ha resistito agli
insulti ed alle bombe. Diabolico, vendicativo, subdolo, bugiardo,
antipatico. Alla fine, il miglior presidente nella storia del
Napoli. Nella foto, Ferlaino, fresco presidente, in moto.
Maradona
conquista Napoli
L e
aveva provate tutte. Ferlaino s'era messo contro Lauro per
acquistare Clerici, un obiettivo già mancato anni prima; s'era messo
contro la Juve e la pistola mostrata infilata nei pantaloni da
Luciano Conti venuto inutilmente al bar dell'albergo milanese
Principe e Savoia a chiedergli di strappare il contratto privato con
cui gli aveva ceduto Savoldi. S'era messo contro i tifosi per aver
venduto, in nome del bilancio, Zoff, Sala, Juliano, Bianchi. Sfidò
ancora una volta il Sistema e le leggi per prendere Maradona, un
affare intuito da Pierpaolo Marino allora all'Avellino e voluto da
Juliano con tutta la sua testardaggine. Fu finalmente la sfida
vincente. Se altri avevano avuto il merito di portare avanti quella
temeraria trattativa, solo lui poteva concretarla.
Maradona era già meglio 'e Pelè; nonostante la caviglia
fracassatagli da Goicoechea, nonostante la vita già maledettamente
disordinata. Voleva prenderlo l'Avvocato per la sua Juve; poi la
confidenza riservata di un dirigente catalano lo dissuase e puntò
per Platini, più vicino alla sua ironia tanto snob. Fu una fortuna
per tutti.
Di Maradona si conosceva tutto, grandezza e miserie; inimitabile in
campo, impossibile fuori. Soprattutto si conosceva, dell'affare, la
difficoltà nel portare avanti la trattativa con il presuntuoso
Barcellona; e la richiesta, milioni di dollari. Alla fine ce ne
vorranno sette e mezzo.
Juliano si tuffò nella mischia come nella partita della vita. Si
stabilì a Barcellona con Dino Celentano e Corrado Isaia, a stretto
contatto con una variopinta corte di mediatori ed informatori
coordinata da Jorge Cysterzpiler, il riccioluto e claudicante ebreo
diventato il manager di Dieguito dall'epoca in cui alla "cebollita"
nata a Lanus da un papà falegname aveva offerto la prima pizza della
sua vita. Ferlaino seguiva tutto da lontano. Una volta andò a
Barcellona pronto a firmare il contratto e se ne ripartì subito
perché gli avevano cambiato le condizioni. Intanto, con l'appoggio
di Enzo Scotti, il sindaco, e grazie all'amicizia di Ferdinando
Ventriglia, presidente factotum del Banco di Napoli, si procurò i
quattrini necessari. Più volte il consiglio di amministrazione del
Banco si riunirà di sera all'hotel Excelsior per approvare i fidi
bancari da inviare in Catalogna. Quando arriverà l'ennesimo, ma
autentico via libera, era sabato 30 giugno 1984; a mezzanotte
scadeva la campagna acquisti.
Millantando un inesistente placet di Ventriglia, fece inviare dal
funzionario di turno le garanzie bancarie richieste. Poi, su un
executive, volò a Milano e si precipitò nella sede della Lega dove,
alla guardia giurata di turno consegnò una busta, vuota, ed una
mazzetta cospicua. Riprese il jet privato ed in tarda serata firmò a
Barcellona il contratto definitivo. Ritornò a Milano alle due di
notte, il termine ultimo per depositare il contratto abbondantemente
scaduto. Tutti sapevano, la trattativa era stata condotta e conclusa
in diretta sotto gli occhi di mezzo mondo interessato ed
incuriosito; le radio catalane trasmettevano senza sosta interviste
ed indiscrezioni, a Napoli una emittente televisiva non staccò mai
la linea con il proprio inviato in collegamento telefonico. I
giornali, quella notte, andarono in macchina fuori tempo massimo pur
di annunciare la lieta novella: habemus Maradonam. Tornato in Lega,
Ferlaino sostituì la busta vuota con quella contenente il contratto. Nessuno
volle accorgersene. Il 5 luglio al San Paolo, dove erano già in
vendita maglie azzurre con il numero 10 ed il nome del titolare.
70mila e passa tifosi in delirio pagheranno mille lire per assistere
ai primi palleggi dell'idolo che oscurerà tutti, Dieguito. Nella
foto, uno degli "altarini" dedicati a Diego dai
tifosi napoletani.
Due
scudetti e la Coppa Uefa
Per realizzare il sogno
occorsero due anni. E la rivisitazione di tutte le strutture. In
società arrivarono Pierpaolo Marino ed Italo Allodi. Sulla panchina
s'accomodò l'orso Bianchi, l'ex sindacalista di cui l'Ingegnere
s'era disfatto. Pur immenso, Maradona da solo non bastava. Ed allora
ecco De Napoli, Carnevale, Romano accanto agli scugnizzi allevati in
casa, Celestini, Carannante, Caffarelli, Puzone, Muro e quel
diamante purissimo cui Marchesi aveva preconizzato la Nazionale Ciro
Ferrara. E fu scudetto. Con una giornata d'anticipo il Napoli
pareggiando in casa con la Fiorentina (10 maggio 1987) vinse il
primo scudetto della sua storia e completò il capolavoro con la
terza Coppa Italia. Al club andò anche il trofeo "fair play" destinato
al pubblico ed alla squadra più corretti.
La città si dipinse tutta con i colori del mare, la millenaria vena
poetica ebbe libero sfogo. A Poggioreale, nei pressi del cimitero,
una malinconica mano anonima scrisse: guagliù, e che ve site perzo...
Tempo una notte. La risposta fece il giro del mondo: "e chi ve l'ha ditto!?
"
La stagione successiva, pur rinforzata da Careca, la squadra mancò
un bis annunciato e, a tre quarti di campionato, unanimamente
giudicato inevitabile. Accadde che s'era rotto il feeling tra
Bianchi e la squadra. E che ormai in Maradona la sregolatezza
cominciava ad essere pari al genio. In un rapporto della Questura
erano contenute le foto di lui in una vasca da bagno dorata in
compagnia dei fratelli Giuliano, i camorristi che gli regalavano e
lo rifornivano di cocaina. A Castelcapuano, dove il rapporto era
giunto, qualcuno lo seppellì in un cassetto; c'era da rivincere lo
scudetto. Ed invece lo vinse il Milan. Un'inchiesta non stabilì mai
quanto fondata fosse la voce secondo cui quel tricolore lo assegnò
la camorra per evitarsi un crac economico, avendo accettato ingenti
puntate al totonero sul Napoli campione d'Italia.
Ferlaino non s'arrese; cercò la rivincita e l'ebbe ma solo in campo
internazionale. 17 maggio 1989, a Stoccarda il Napoli conquistò la
coppa Uefa; lo scudetto andrà all'Inter. Tornerà, il tricolore,
l'anno successivo con il mite Bigon sulla panchina liberata da
Bianchi. L'estate era stata movimentata dal tormentone Maradona,
scomparso in Argentina, mentre Tapie aveva rivelato di aver
raggiunto un accordo con lui per portarlo a Marsiglia. Fu necessario
rinegoziare il contratto con Dieguito, in pratica riacquistandolo;
altri sette milioni e mezzo di dollari. Ed arrivò il bis, due punti
in più sul Milan, grazie
anche alle monetina che colpì Alemao nel corso di Atalanta-Napoli
trasformando il pareggio in una vittoria ed al harakiri milanista
nel finale di stagione.
La cosa più difficile ormai era diventata la gestione di Maradona,
sempre più schiavo della bianca polverina degli dei; l'impresa fu
affidata a Luciano Moggi. A furia di compromessi e di bugie, di
provette sostituite al controllo antidoping, si andò avanti. Poi il
patatrac: beccato positivo; cocaina, ovviamente, la droga che ne
deprimeva le prestazioni agonistiche. Un agguato ed una vendetta
ordita all'interno del club, ha sempre sostenuto lui. La squalifica
gli impedì di portare a termine il campionato. Fu ceduto al
Siviglia. Il suo sole cominciava malinconicamente a tramontare.
Prese ad impallidire anche la stella di Corrado Ferlaino,
s'avvicinava il ciclone Tangentopoli. E per il Napoli un
inarrestabile declino. Nella foto, Maradona con la Coppa Uefa da
poco conquistata.
Gli
anni bui, dopo Tangentopoli
C oinvolto
in Tangentopoli per l'appalto dei Regi Lagni, all'alba Ferlaino si
costituì in una caserma dei Carabinieri, passò per l'ufficio
matricola di Poggioreale, confessò parte dei suoi segreti e delle
sue verità ai magistrati, e la sera dormì nei proprio letto, agli
arresti domiciliari. Ottenutane la revoca, uscì di scena. La
presidenza (1993) passò temporaneamente ad Ellenio Gallo, intervenuto più volte,
senza rimetterci troppo, ad assicurare liquidità alle casse sociali.
Lo affiancò, toh chi si rivede!, Ottavio Bianchi riciclatosi come
direttore generale. A guidare la squadra, Marcello Lippi. All'ultima
giornata di una stagione contrassegnata da problemi economici sempre
più gravi (i calciatori ad un passo dalla messa in mora del club),
fu centrata la qualificazione in Uefa.
Poteva essere la rinascita. Ed invece per far cassa furono ceduti
Ferrara, Crippa, Thern, Zola. Ferlaino per la prima volta era
azionista di minoranza, avendo ceduto i pacchetti di controllo a
Gallo e a Setten; un altro aspirante dirigente, Vincenzo Pinzarrone,
fu arrestato appena preso possesso di una scrivania a Soccavo; i
titoli di credito versati in banca per l'acquisto di Cruz e Rincon
erano falsi! Squadra affidata a Guerini, poi a Boskov.
Il 20 giugno 1995, un nuovo presidente: nientedimenoche, Corrado
Ferlaino, tornato per evitare il crac (forse anche quello del suo
gruppo) grazie al sindaco Bassolino e al presidente federale
Matarrese. La squadra non era malvagia, l'allenatore valido: Gigi
Simoni, licenziato alla vigilia della finale di Coppitalia, per
essersi promesso all'Inter. Ferlaino non accettava di subire le
scorrettezze ch'era pronto a commettere.
Il campionato seguente fu caos totale: 4 allenatori (Mutti, Mazzone,
Galeone, Montefusco), per conquistare 14 punti; il ritorno del
"nemico" Juliano dopo 13 anni e della B dopo 33. Nell'inferno della
cadetteria si rosolerà a dovere il narciso Ulivieri. Ci vorrà la
grinta sanguigna di Novellino per tornare in A; mentre il traguardo
era vicino, il 5 aprile 2000, Ferlaino cedette a Giorgio Corbelli il
50% del pacchetto azionario. Coprendo con 100 miliardi le
esposizioni di Ferlaino verso le banche, il nuovo arrivato acquisì
in comproprietà anche un suolo a Giugliano e le quote di maggioranza
di palazzo D'Avalos.
La serie A fu un dramma in un clima di tutti contro tutti. La
diarchia a volte funzionava nell'antica Roma; tra i consoli del
Napoli furono liti e dispetti. Nessuno si assumerà la paternità
dell'ingaggio di Zeman, né la sua sostituzione con Mondonico. Sarà
tutta sulle loro coscienze la salvezza mancata per un solo punto.
Andranno avanti così con l'ennesima rifondazione, affidata a De
Canio. A crederci, il solo Corbelli. Ferlaino, non più. L'unico suo
obiettivo era ormai un'uscita di scena alla grande, che facesse dire
ch'era stato come sempre il più furbo; cioè ben ricompensato.
Nella foto, Lippi: centrò l’ammissione del Napoli in Coppa Uefa.
Da Corbelli a Naldi, poi il baratro
Ferlaino
voleva vendere, Corbelli doveva comprare. La storia s'era ripetuta;
con il secondo nella scomoda parte toccata all'Ingegnere all'esordio
della sua prima presidenza. Per salvare l'investimento era
indispensabile liquidare il socio rivale. Gli occorreva un partner.
Lo trovò in un amico del suo braccio destro napoletano. Al termine
di una cena al Savoia, l'imprenditore alberghiero Salvatore Naldi
disse sì alla proposta indecente: venti miliardi per il 10% del
disastrato Calcio Napoli. Fu il più bel regalo di Natale ricevuto da
Corbelli e, indirettamente, da Ferlaino. Era dicembre del 2001.
Due mesi più tardi, il 12 febbraio 2002, presente Salvatore Naldi
che garantiva parte del pagamento e portava al 20% la sua
partecipazione, fu firmato il contratto che sanciva la definitiva
uscita di Ferlaino dal Napoli. Corbelli non ebbe il tempo di gioire.
Appena un mese, il 17 marzo, su mandato della Procura di Bari si
trovò in carcere per una storia di poco trasparenti vendite
all'asta. In galera maturò il convincimento che l'origine dei suoi
guai era in quella presidenza. L'istanza di fallimento del Napoli e
la nomina di un curatore, il prof. Gustavo Minervini, lo indussero a
passar la mano.
Naldi s'era tuffato in un corso accelerato di presidenza; nelle
condizioni peggiori e nonostante l'invito della famiglia e dei
consulenti a lasciar perdere, quaranta miliardi erano uno sfizio
ancora sopportabile. Invece decise che da quel momento in poi
nessuno dovesse più dirgli cosa fare. Disse ai suoi di andare avanti
nelle trattative: i soldi c'erano, sapeva lui dove prenderli. Il 30
maggio all'hotel Mediterraneo si festeggiò la conclusione della
trattativa con Corbelli; il 21 giugno, a Soccavo, la sua nomina a
presidente. Oggi si avvera un sogno, disse, un tifoso diventa
presidente del Napoli. Spiegò perché l'aveva fatto: la sua famiglia
aveva un debito morale con la città, voleva saldarlo. Chiese aiuto e
collaborazione: alle istituzioni, agli imprenditori della città, ai
tifosi. Da questi ultimi ottenne simpatia, ma anche le coltellate di
aggressioni ai giocatori e di due invasioni di campo (al S. Paolo
contro la Salernitana e nell'ultima stagione ad Avellino) che
compromisero irrimediabilmente due campionati. Gli imprenditori
confermarono con il silenzio di essere poco allenati ad affrontare i
rischi. Le istituzioni provarono a stargli vicino senza mai seguire
l'esempio dell'amministrazione comunale di Torino. Si fecero avanti
avventurieri e millantatori, il misterioso giordano Haq, avvoltoi.
Dovette e volle far da solo. Tra quattro candidati al ruolo di
general manager scelse l'ultimo, Marchetti, il più inadeguato ed
inesperto. Dovette fare i conti con Moggi, abile nel promettere
tutto per non mantenere niente, piazzati a prezzi altissimi
calciatori bolliti e tecnici ossequienti della scuderia del figlio.
A dicembre disse basta, non tirerò fuori più un
centesimo, ho dei doveri verso la mia famiglia: erano i circa 400
dipendenti della sua impresa alberghiera, messi in pericolo dal
Napoli. Così i libri sociali della SSC Napoli sono tornati in
Tribunale, per restarvi definitivamente. Naldi è uscito battuto,
come il presidente del fallimento. Ha sbagliato, ma per troppo
amore. Il tempo, galantuomo, si incaricherà probabilmente di
stabilire un giorno che dopo Giorgio Ascarelli è stato il secondo
presidente, nella storia del club, a pagare tanto di tasca propria.
Nella foto, Totò Naldi il presidente del fallimento del Napoli.
Carraro
s’inabissa, De Laurentiis emerge
N elle
aule del Tribunale, nei Palazzi della politica e nella sede della
Federcalcio si inizia una corsa contro il tempo per evitare la
scomparsa di Napoli dal panorama calcistico nazionale. Una lotta
furibonda segnata da ritmi di sceneggiata con attori non tutti
all’altezza del ruolo. I tifosi recitano la parte assegnata nelle
tragedie greche al pubblico: spettatori ma anche coro cioè parte
attiva dello spettacolo. S’innamorano di Gaucci il quale, prima di
rifugiarsi in un esilio sudamericano e sfuggire ai guai giudiziari
collezionati in più città italiane per vicende calcistiche, tenta la
scalata al Napoli. Naldi ingannato da politici, i quali lo
costringono a mortificanti peregrinazioni in istituti bancari le cui
porte risultano casseforti blindate, è costretto alla resa. In pista
altri due candidati: l’udinese Pozzo ed il napoletano De Luca,
diventato presidente del Siena. All’ultimo momento nella Cancelleria
del Tribunale, da Capri, arriva l’offerta vincente: il produttore
cinematografico Aurelio de Laurentiis sbaraglia la concorrenza e fa
nascere il Napoli Soccer. 2004. Si riparte dalla Serie C 1. Pierpaolo
Marino , nuovo Direttore Generale, in dieci giorni allestisce una
squadra affidata a Giampiero Ventura. Occorreranno ritocchi e cambi
di gestione per arrivare ai play-off promozione, perduti nella
doppia sfida con l’Avellino. La stagione successiva ad Edy Reja
basteranno pochi ritocchi per trasformare il campionato in una
cavalcata travolgente. Mentre il calcio italiano è sconvolto dalla
tempesta più grave della sua storia, in cui si inabissa anche l’
"infame Carraro", il Napoli torna a rivedere il sole dei campionati
maggiori. De Laurentiis mantiene la promessa, ed in soli tre
stagioni riesce a risalire dalla Serie C alla Serie A. Missione
felicemente compiuta. Nella foto, il famoso
striscione dei tifosi azzurri contro Franco Carraro.
Romolo Acampora
Come nacque il grande Napoli di Ascarelli
e Garbutt
di
Attila Sallustro
Vi proponiamo un articolo scritto dal grande Attila Sallustro
(1926-1983) nel marzo del 1965, su “La grande storia del
Calcio Italiano” per ripercorrere il suo periodo più
bello, quello degli Anni Trenta con il famoso e
applaudito Napoli di Giorgio Ascarelli e di Willy
Garbutt:
Soffro
di nostalgia o sono troppo legato ai giorni che mi
videro in maglia azzurra? No, non credo che siano questi
i sentimenti a dettarmi quanto vi dico. Vi sono i
risultati, le classifiche, gli episodi che parlano a
sostegno della mia tesi. Non si potrebbe parlare di un
grande Napoli, oggi se questo grande Napoli non fosse
esistito ieri. Per i giovani è storia lontana,
sconosciuta.
La costruzione dello Stadio al Rione Luzzatti, il
Napoli da Coppa Europa, il trio Vojak, Sallustro,
Mihalic, le “forbici” di Vincenti, il “sorcetto”
Benfatti, gli “scatti” di Innocenti, la famosa partita
con l’Admira all’Ascarelli, il sensazionale acquisto di
Colombari per 250.000 lire di allora, l’auto Balilla che
Ascarelli mi regalò nel 31-32 quale unico compenso alla
mia opera, sono tutti nomi e fatti che la maggioranza
dei giovani di oggi ignorano.
Come nacque il grande Napoli del 1933 e del 1934, quello
della Coppa Europa? Nacque dalla volontà, dalla
sportività, dalla sagacia di un uomo: Giorgio Ascarelli
che promise di evitare che il Napoli ogni anno dovesse
lottare per la retrocessione od evitarla solo per
superiori interventi. Per questo nacque il “Piano
Ascarelli”. Costruì a sue spese lo stadio al Rione
Luzzatti, mandò a chiamare mister Garbutt, che era
allora allenatore della Roma e prima aveva guidato il
Genoa e fece compilare da lui il piano tecnico.
Si era nella stagione 1929-30. Furono acquistati Cavanna,
Vincenzi, Benfatti, Vojak, Mihalic. Alla fine del
campionato rappresentammo la grossa sorpresa, finendo al
quinto posto, primi del centro-sud, con generale
ammirazione. A Vojak, a Mihalic ed a me toccò la
soddisfazione di finire in Nazionale contro il
Portogallo, partita vinta per 6-1 (due gol di Mihalic ed
uno di Sallustro n.d.r.). La convocazione fu preceduta
da una delle vittorie più clamorose della nostra
squadra: quella che andammo a cogliere sul campo del
Modena per 5-0 (doppiette di Vojak e Mihalic e gol di
Sallustro n.d.r.).
Giorgio Ascarelli aveva un piano ben preciso: fare del Napoli
in tre anni una squadra in grado di lottare, con le
“grandi” dell’epoca, per lo scudetto. La morte lo ghermì
troppo presto: appena un anno dopo l’inizio
dell’attuazione pratica del suo progetto.
Seguirono anni di sbandamento: il nuovo Consiglio non riuscì
a procedere sul cammino di Ascarelli e la Società non
visse momenti buoni, economicamente. Sul piano tecnico,
l’acquisto di Volante che doveva risolvere il solo
problema della squadra, quello del centromediano, fallì
allo scopo. Né bastarono gli ingaggi di Castello,
Colombari, Fontana e Fenili a far più forte la squadra.
Così perdemmo alcune posizioni al termine della stagione
e l’anno successivo finimmo addirittura al nono posto.
Comunque, per me furono anni di grandi soddisfazioni, come
quando, essendosi fatta acutissima la rivalità fra me e Meazza (una rivalità solo sportiva in quanto tra me e il
“Pepin” è sempre regnato il massimo accordo e vi è stata
sempre reciproca stima e amicizia) in una partita
giuocata nella mattinata della festa dell’Ascensione del
1930, tra noi e l’Ambrosiana, imperniata proprio nel
confronto diretto tra i centravanti delle rispettive
squadre, il Napoli vinse per 3-1 disputando una delle
partite più belle della storia ed io segnai due dei tre
gol alla squadra che poi vinse lo scudetto.
Alla fine mi
portarono in trionfo dal campo fino al centro della
città ed il traffico restò interrotto per più di un’ora.
Tanto entusiasmo aiutò i dirigenti a superare i momenti
critici, determinati da una situazione economica non
troppo brillante. Dopo qualche scossa, entrati nel
Consiglio Savarese, Consolazio, Merlini ed Improta, il
Napoli riebbe finalmente un’impalcatura assai solida. A
questo consolidamento economico corrispose sul piano
tecnico una mossa indovinata: Garbutt si convinse che
era inutile andare a cercare il centro mediano fuori e
puntò direttamente su Buscaglia. Ne sortirono subito
effetti miracolosi: la squadra prese a girare benissimo.
Nel 1932-33 finimmo al terzo posto a pari merito col Bologna,
dietro alla Juve campione ed all’Ambrosiana-Inter. Ci
classificammo terzi, ma da soli, anche nel campionato
successivo, nel 1933-34, e sempre dietro l’Ambrosiana e
la Juve scudettata. Fu una stagione trionfale e ci
meritammo per la prima volta anche il privilegio di
difendere i colori italiani nella Coppa Europa, la bella
competizione internazionale alla quale partecipavano le
prime squadre d’Italia, Austria, Ungheria e
Cecoslovacchia.( Ricordiamo la formazione di quella
stagione: Cavanna, Vincenzi, Innocenti, Colombari,
Buscaglia, Boltri, Benatti, Vojak, Sallustro, Gravisi,
Ferrarsi II, n.d.r.)
A noi nel primo turno toccò di incontrare l’Admira che era
una delle favorite del Torneo. La prima partita si
disputò a Vienna sul campo del Prater, e finì a reti
inviate, facendoci sperare di aver superato il durissimo
ostacolo. Infatti, nella partita di ritorno a Napoli, ad
un quarto d’ora dalla fine vincevamo per 2-0, (reti
folgoranti di Sallustro e Vojak su rigore n.d.r.)
senonchè Rossetti e Rivolta, sicuri del fatto loro,
presero a giocherellare per due volte, con preziosismi
inutili, l’ala sinistra austriaca Durspekt soffiò loro
il pallone segnando i due gol che permisero all’Admira
di pareggiare. Sette giorni dopo, sul “neutro” di Zurigo
ebbe luogo lo spareggio, ma le prendemmo sode (5-0) e
fummo eliminati dagli austriaci che poi perdettero a
settembre la finalissima con il Bologna. Su questo
incontro di Zurigo terminò praticamente il periodo d’oro
del Napoli (dopo la sonora sconfitta con l’Admira tutti
i giocatori furono multati dalla Società ed a Sallustro
fu addirittura tolta la fascia di capitano n.d.r.).
Attila Sallustro |